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Un nuovo welfare

     Luglio 23, 2019   No Comments

Energie Nuove – NUMERO 1 – luglio 2019

Un nuovo welfare

di Arturo Alberti

Uno sguardo attento non può non riconoscere il grande lavoro svolto da tante persone tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento che fecero della carità e della beneficienza una strategia per dare risposta ai bisogni, per curare e prendersi cura, assistendo, insegnando, dando speranza, riabilitando, formando a nuovi valori, accogliendo bambini, adulti, anziani cui nessuno dedicava attenzione.

Gli stati moderni hanno poi capitalizzato questa operosità generosa, favorendo il passaggio da carità a giustizia. Si è pensato che non bastasse dare per carità quello che doveva essere dato per giustizia. Si sono riconosciuti diritti agli individui, perché potessero beneficiare di proventi della solidarietà che, attraverso lo strumento fiscale, si trasforma in capacità di far incontrare bisogni e diritti.

La pretesa del Welfare State di provvedere a tutti i bisogni dei cittadini, visti come individui, dalla nascita alla morte si è scontrata con l’incapacità di accogliere le crescenti domande di aiuto e con una povertà pluridimensionale. Esiste la povertà economica, forse la più facile da individuare. Viene identificata una soglia di povertà sotto la quale non è più garantita la sopravvivenza fisica delle persone, della famiglia. Ma c’è anche una seconda dimensione della povertà che è quella politica, che si lega essenzialmente alla povertà di diritti, alla mancanza di diritti. Una terza dimensione della povertà è quella relazionale. Il tema della solitudine, dell’isolamento, della mancanza di riferimenti, costituisce una forma di povertà molto significativa.

Infine c’è una povertà di senso: l’incapacità di dare un significato a sé, agli altri, alla storia, alla vita, alla sofferenza, alle tante esperienze che si vivono. E’ una povertà che molti giovani oggi sperimentano.

E’ evidente che non ci si può adagiare su un welfare basato su due punti: raccogliere le risorse, distribuirle

Così si esprimeva il Prof. Zamagni in un suo intervento: “Aver legittimato politicamente la separazione (e non già la distinzione, il che è ovvio) tra sfera economica e sfera sociale, attribuendo alla prima il compito di produrre ricchezza e alla seconda quello di distribuirla è stata la grande “colpa” del welfare State. Perché ha fatto credere che una società democratica potesse progredire tenendo tra loro disgiunti il codice dell’efficienza – che basterebbe a regolare i rapporti entro la sfera dell’economico – e il codice della solidarietà, che presiederebbe invece ai rapporti intersoggettivi entro la sfera sociale”. Negli ultimi 30 anni ci si è limitati a una concezione assistenzialistica nella distribuzione delle risorse. Si è puntato sul “raccogliere e distribuire” identificando nei proventi della solidarietà fiscale la condizione necessaria e sufficiente per operare. Le strategie per “prendermi cura” sono diventati sistemi assistenziali gestiti a costo e non a investimento, senza cercare nuove forme di aiuto e sviluppo umano e sociale.

L’incontro tra i diritti e i doveri dovrà garantire un miglior rendimento delle risorse a disposizione. Ma non sarà possibile in un mondo in cui diritti e doveri non si parlano. La non comunicabilità fra diritti e doveri è derivata da forme di protezione a “riscossione individuale”. Non chiedono e non incentivano solidarietà e responsabilizzazione sociale. E’ giusto consumare risorse “in privato” senza rigenerarle per altri? Ogni volta che i diritti sociali vengono considerati solo “individuali” mortificano la propria natura: quello che ricevo è per aiutarmi e per mettermi in condizione di aiutare. Sono diritti condizionati non tanto dal limite delle risorse ma dalla mia e nostra capacità di rigenerare le risorse a vantaggio di altri.

E’ necessario che ogni persona possa gustare la libertà dalla dipendenza assistenziale, dall’aiuto che non riconosce dignità e capacità. Le istituzioni, dopo aver raccolto le risorse con la solidarietà fiscale, devono evitare che siano consumate da “aventi diritti senza doveri”. Ognuno è chiamato a diventare protagonista dello sviluppo proprio, della propria famiglia, del proprio paese. E ogni persona è chiamata a mettere in gioco la propria libertà, il più grande dono fatto agli uomini. Senza questa prospettiva generativa, ogni forma solamente assistenziale andrebbe a ledere la dignità delle persone.

Quindi non si può solo raccogliere e distribuire, ma rigenerare, rendere in termini sociali, responsabilizzare. Nei servizi sociali, i margini di investimento sono considerevoli perché la parte della spesa assistenziale trasformata in servizi alle persone e alle famiglie è solo il 10%. Si può contare sul 90% degli attuali trasferimenti monetari (45 miliardi circa) per assistenza sociale in gran parte improduttiva, trasferita a costo e non a investimento, per potenziare la capacità di aiutare con occupazione di Welfare. Ma politicamente non è facile togliere quello che è stato concesso e che genera costo.

Ogni aiuto che valorizza le proprie capacità è anche moltiplicatore di valore. E’ una opzione etica visto che anche agli ultimi va riconosciuto il diritto di contribuire a una socialità che si rinnova, nel momento n cui diventa più capace di essere solidale. Un diritto diventa a pieno titolo sociale quando genera benefici per la persona e contemporaneamente per la comunità. Quando non rigenera, chi beneficia sottrae bene pubblico a fini individuali.

Allora se il principio attivatore del Welfare generativo è “non posso aiutarti senza di te” occorre capire che cosa si può fare con l’aiuto messo a tua disposizione.

Naturalmente è una sfida che stimola la creatività e non è esente da rischi e da difficoltà. E’ complessa la gestione di un potenziale umano ed economico di grandi proporzioni, che non si può più continuare a trattare in termini assistenziali, ma solo con fonte di dignità e valore.

E’ una impresa che necessita del coinvolgimento attivo di più soggetti: le istituzioni, le imprese, il terzo settore, il mondo del volontariato. E’ una grande opportunità per sperimentare la sussidiarietà come fattore di sviluppo applicando il comma 4 dell’articolo 118 della Costituzione: “La Repubblica si impegna-in tutte le sue articolazioni della sussidiarietà verticale-a favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.

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