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Ai sèm dlèt

     Luglio 23, 2019   No Comments

Energie Nuove – NUMERO 1 – luglio 2019

Ai sèm dlèt

di Corrado Augusto Patrignani – Presidente Cesena FC

Gli ultimi giorni di giugno sono, per un club di calcio, un tempo di passaggio nel quale si mescolano sentimenti contrastanti. Specie quando, come nel Cesena di quest’anno, si è reduci da una vittoria. Da un lato la soddisfazione, ancora presente ma ormai un po’ sfumata, per l’obiettivo centrato. Dall’altro lo sguardo già rivolto, tra curiosità e adrenalina, alla stagione che sta per iniziare, alle nuove sfide che attendono.

Prima di pensare al futuro mi piace però tornare indietro con la memoria ai giorni in cui è iniziata questa avventura, “complessa e affascinante” come la definii quel 2 agosto di un anno fa. Ventitré aziende, poche settimane dopo il fallimento dell’AC Cesena, avevano rifiutato l’idea di lasciare un’intera città senza calcio e quel pomeriggio facevano nascere il “nuovo” Cesena FC. Lì arrivava a compimento il compito laborioso portato avanti da Gianluca Padovani e Luca Pagliacci di Pubblisole, la società che aveva unito attorno a un tavolo quelle ventitré aziende, e si era aggiudicato il bando indetto del Comune. Senza uno stadio, senza il Cavalluccio, senza una sede e con una squadra da costruire quasi da zero, ma avevamo un futuro. E questo grazie anche al Romagna Centro e al suo presidente Daniele Martini che avevano messo a disposizione il titolo della società, permettendoci così di ripartire dalla serie D.

E’ in quel caldo pomeriggio di agosto che inizia la mia avventura alla presidenza del Cesena, un ruolo in cui si fondevano orgoglio e responsabilità. Ma se l’orgoglio dura un attimo, alla responsabilità non ti puoi sottrarre mai. E un presidente deve metterci la faccia sempre, anche quando, alla prima intervista, ti chiedono qual è l’obiettivo da raggiungere. Sapevo che in quel momento sarebbe stato più prudente e consigliabile fare melina (per usare un’immagine calcistica), dire ma non dire, schivare la domanda e aspettare. E invece, senza mezzi termini, risposi: “Dobbiamo vincere”. Senza se e senza ma. Ero consapevole che era un po’ come lanciarsi nel vuoto sprovvisti di paracadute e che quelle parole avrebbero significato mettere pressione all’intero ambiente, in primis a staff tecnico e squadra ma, quando ti chiami Cesena, con la pressione – io preferisco chiamarla responsabilità – prima o poi ci devi fare i conti. Specie quando hai 8.364 persone che hanno risposto presente alla campagna abbonamenti solo perché sei il Cesena e in oltre undicimila, un pomeriggio di ottobre, si ritrovano all’Orogel Stadium Dino Manuzzi, nel giorno in cui siamo di nuovo a casa.

In quel “dobbiamo vincere” non c’era nessuna sottovalutazione delle difficoltà che avremmo incontrato ma solo l’invito a dimostrarsi più forti e a superarle. Perché ero consapevole che non sarebbe stato un percorso in discesa. Il ritardo nella costruzione della squadra, la sua incompletezza, l’agguerrita concorrenza di un avversario, il Matelica, durata fino alla fine. E non sono mancati i momenti in cui è stato necessario mettersi in discussione. Me ne vengono in mente due, in particolare. Il primo a novembre quando, dopo un pareggio col Campobasso, ci siamo ritrovati a sette punti dalla vetta. L’altro ormai in primavera quando i ruoli tra il Cesena e la squadra marchigiana si erano invertiti, noi battistrada e gli altri a rincorrere ma, ogni domenica che passava, sempre più vicini. E’ nei momenti di difficoltà che si vede la forza di un club e lì è venuta la compattezza della proprietà: non solo nel tornare sul mercato a rinforzare la squadra, ma soprattutto nel trasmettere fiducia e serenità all’ambiente. Da lì siamo ripartiti per uno sprint che il 5 maggio ci ha portato a prenderci quello che ci eravamo meritati, il ritorno tra i professionisti. Forse più sofferto di quanto avremmo immaginato ma proprio per questo ancora più dolce ed esaltante.

Ma se guardo indietro, ripenso a tutto quello che in undici mesi abbiamo costruito anche fuori dal rettangolo verde. A partire dal settore giovanile, che conta oltre seicento ragazzi e dovrà tornare ad essere una fucina di talenti per la prima squadra. Ci vorrà tempo ma la strada è quella. E poi l’accordo con il Castelvecchio con cui abbiamo messo le basi per dotare il club di una sezione femminile. Fino alla nascita dell’Accademia Calcio Cesena che avrà il compito di aggregare le altre realtà calcistiche del territorio.

Nel frattempo, da ventitré i soci sono saliti a ventotto e mi piace pensare che chi si è unito strada facendo lo abbia fatto perché convinto dal programma che ci siamo dati, quello di fare calcio in maniera trasparente e sostenibile. Che, tradotto, vuol dire spendere in base alle risorse a disposizione, senza accumulare debiti ma onorando gli impegni presi. E’ quello che ci dovrà contraddistinguere anche nella dimensione professionistica che pure ci chiamerà ad uno sforzo economico superiore.

Ed eccoci alla nuova stagione che ci aspetta. Abbiamo deciso di approcciarla con un profondo rinnovamento, dalla guida tecnica alla squadra. La riconoscenza verso i protagonisti della promozione resta ma, per rifarci alla splendida coreografia in Curva Mare quel giorno di Cesena-Francavilla, abbiamo pensato fosse giunto il momento di girare pagina e scrivere un nuovo capitolo di questa storia. Da qui la scelta di puntare su un allenatore emergente come Francesco Modesto, al quale abbiamo affidato il compito di coniugare i risultati ad un calcio che possa anche divertire.

Questa volta lasciamo volentieri ad altri l’obiettivo di “dover vincere” ma la parola “salvezza” è difficile da affiancare al nome Cesena. E allora, in questo caso, un po’ di melina la faccio e preferisco parlare di un campionato all’altezza della nostra storia: lo merita la nostra gente, lo vogliamo fortemente noi, oltretutto in una stagione che ci porterà a tagliare il traguardo degli ottant’anni di vita.

Un’altra avventura, altrettanto complessa e affascinante, sta per iniziare ma è bello tornare con la mente, per l’ultima volta, ad un anno fa quando tutto sembrava finito e invece oggi poter dire: ci siamo ancora. Anzi, “Ai sém dlét”.

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