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Disoccupazione. Una nuova prospettiva.

     Giugno 28, 2017   No Comments

di Alberto Piraccini

Nel mondo occidentale, capitalista e post-industriale la disoccupazione rappresenta un aspetto problematico e drammatico per la sua implicazione economica e sociale. Ma è un fattore congiunturale o strutturale? Può essere vista da un’altro punto di vista che non sia sempre e solo quello dell’assistenza o dei vari ammortizzatori sociali? Direi di sì: utilizzando un nuovo approccio di tipo culturale. Un brevissimo excursus nel “mondo del lavoro” degli ultimi duemila anni, ci introduce meglio verso questa affermazione. Siamo passati dallo schiavo al robot, dalla giornata lavorativa di 14 ore, alla settimana di 36/40 ore. I bambini non scendono più in miniera. Esiste lo Statuto dei lavoratori e si lotta per la qualità del lavoro. La produzione è sempre più efficiente grazie ad una nuova tecnologia. Il tutto lascia credere che l’uomo intenda, per quanto più possibile, sottrarsi alla fatica del lavoro, fisica e mentale. Con la nascita della borghesia e con la rivoluzione industriale, il lavoro diviene forse l’unico mezzo legale per salire la scala sociale. Non è più un segno negativo come ai tempi “dell’ozio romano”, anzi se mai è il contrario. Nasce la cultura del lavoro, l’etica del lavoro, ma la disoccupazione primaria o secondaria, saltuaria o perenne è sempre esistita ed è tuttora presente, con percentuali variabili secondo il ciclo economico, che nessuno fino ad ora è riuscito ad imbrigliare. Inoltre come ha detto recentemente Samuelson “il boom di un economia non può essere eterno, non lo è mai stato e non lo sarà mai” e mi sembra naturale perciò pensare che la disoccupazione esisterà anche nel prossimo futuro. Esistono inoltre alcuni fattori come: maggiore età lavorativa, nuove tecnologie, presenza sempre più numerosa delle donne nel mondo del lavoro, afflusso di mano d’opera dal 3° e 4° mondo, che spingono ad alimentare la disoccupazione. A questi si deve aggiungere la ricerca costante da parte delle industrie di una sempre maggiore produttività e redditività, necessaria per imporsi nel mercato mondiale. Questa volontà si riduce quasi sempre all’introduzione di nuova tecnologia e alla riduzione del personale lavorativo. J. Rifkin in una analisi seria e approfondita ha messo in evidenza la riduzione costante delle unità lavorative. Si può essere d’accordo o meno sulle conclusioni cui giunge, ma è indubitabile che la direzione del mercato del lavoro sia quella. Un esempi in Israele hanno inventato una macchina per raccogliere la frutta, capace di scegliere solo quella matura. Lavora 24 ore al giorno e non sciopera mai. Contemporaneamente, nè la creazione di nuovi bisogni, nè la nascita di micro-lavori, fanno diminuire il tasso di disoccupazione. E’ lecito perciò pensare che questa non cesserà di esistere e quindi va considerata un fattore strutturale nelle economie occidentali, anche se un basso tasso è necessario per rendere il mercato del lavoro più elastico. Ma in questo caso non sarebbe un problema sociale. Nel frattempo il mondo occidentale (es. Europa) ha risolto per la maggioranza delle persone il problema dei bisogni fondamentali, dei bisogni essenziali. Il tema “qualità della vita” sta prendendo sempre più spazio nella coscienza di chi lavora e nel cuore degli uomini: vedi coscienza ecologica. La stragrande maggioranza di chi lavora svolge un’attività ripetitiva e a lungo andare alienante perciò viene da chiedersi se il lavoro sia un merito o una pena per l’uomo. A parte questa domanda di ordine filosofico, oggi il lavoro per molti rappresenta anche il mezzo per ottenere più tempo libero. Più tempo per poter soddisfare esigenze e aspirazioni personali. Anche Marx ha trattato ed affrontato questo tema. Si rifiuta l’etica della giungla, il desiderio del maggiore guadagno, della carriera, per ritornare ai valori, ai bisogni e ai desideri individuali. Non tutti possono o vogliono essere piccoli o grandi imprenditori, piccoli o grandi professionisti. Non è una sconfitta, ma una scelta di vita. Molti non la condividono e lottano per il contrario, ed anche questa è una scelta di vita che è da apprezzarsi, in quanto muove il mondo dell’economia. Ogni scelta individuale quindi va rispettata ed accettata nello spirito di un liberalismo moderno. In queste scelte esistenziali la disoccupazione è sempre presente. Ma oltre all’aspetto economico, quello di cui dobbiamo ora evidenziare è l’aspetto psicologico del disoccupato che spesso non è affrontato e risolto. E’ il senso di frustrazione che è importante considerare. Si legge di uomini che si uccidono perchè disoccupati (perchè quasi mai donne?). Colui che entra nel mondo della disoccupazione si sente un emarginato, un cittadino di 3a o 4a categoria, in altre parole un fallito e spesso senza sua colpa. E’ necessario un cambiamento culturale nei confronti del tema “lavoro”. Si parla di flessibilità, elasticità, di capacità delle nuove generazioni di cambiare professione o attività per adattarsi alle esigenze di un mercato sempre più duro e difficile. Ma, questo prima di tutto è un problema culturale. Per assurdo, che un ingegnere faccia lo spazzino è prima un fatto culturale che economico. Se il lavoro perdesse in parte quell’alone di imperiosità, di necessità, di insostituibilità che ora possiede, per cui qualsiasi lavoro va bene, forse la disoccupazione non sarebbe vista con tanta drammaticità. I1 salto culturale consiste in questo e la disoccupazione sarebbe vissuta come un episodio più o meno lungo della nostra esistenza e accettata a livello individuale, perchè il resto della società lo considera un fatto inevitabile ed è quindi disponibile a sostenere il disoccupato accollandosi l’onere economico.Oggi a te e domani a me.Il disoccupato potrebbe allora vivere in una situazione psicologica e sociale, non dico soddisfacente, ma passabile, vivibile. Per eccesso vorrei dire che come abbiamo ingegneri, medici, impiegati, operai, spazzini, abbiamo anche disoccupati. E’ questo il cambiamento culturale fondamentale, non cercare di eliminarla con mezzi più o meno efficaci e transitori, ma accettarla come una componente strutturale.E’ possibile questa rivoluzione culturale? Si, perchè è inevitabile da un punto di vista economico. Allo stato attuale la ricchezza non può esserci per tutti. Può però essere meglio distribuita. Questo deve avvenire senza togliere spazio e forze a chi la vuole produrre, perchè il lavoro produce ricchezza e la ricchezza benessere, se è equamente distribuita. Ma dobbiamo sostenere l’idea che essere disoccupato non è una tragedia, nè individuale nè sociale, perchè il lavoro non può esserci per tutti e per sempre. Certo dobbiamo stimolare, dare “thimos” specialmente ai giovani verso il mondo del lavoro, senza cui la società non può sopravvivere, svilupparsi e progredire e che la condizione di lavoratore è sempre migliore di quella di disoccupato e non solo per i benefici economici che esso comporta (attenti al consumismo).Quando l’uomo potrà passare dalla condizione di lavoratore a quella di disoccupato senza perdere la sua dignità, il disoccupato vivere la disoccupazione senza eccessiva angoscia e frustrazione, perchè la società è lì per sostenerlo e comprenderlo. Quando opereremo in modo che tutti si sentano partecipi di un’ unica società sostanzialmente giusta ed equa il disoccupato non si sentirà un peso morto od inutile, allora la disoccupazione sarà vinta, perchè non ci saranno più disoccupati, ma individui e cittadini in una diversa posizione socio-economica.

  •   Published On : 7 anni ago on Giugno 28, 2017
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  •   Last Updated : Giugno 28, 2017 @ 11:55 am
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