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Crisi dell’Europa, crisi della Sinistra

     Giugno 26, 2017   No Comments

di Riccardo Caporali

1. Il liberismo non è la «natura delle cose» Partiamo da noi, da Cesena: 15.000 disoccupati (donne, per il 60%); artigiani costretti a mollare una sfida diventata impossibile, i capannoni ridotti al silenzio e all’abbandono; negozi “storici” del centro e della periferia che chiudono dopo 30-40 anni: addii accorati dalle vetrine, là dove l’economia si mescola con l’umanità di antiche conoscenze, di consolidate, rassicuranti frequenze: «Grazie, non vi dimenticheremo mai». Malinconia del dolce commercio. Succede qui, in una delle zone più ricche e civili d’Italia. Succede che aumenti letteralmente la povertà, che gli enti di assistenza stentino a tenere il passo dei bisogni; e parlo di pura assistenza: un pasto caldo, un vestito usato, qualche volta una voce amica, nel gelo della solitudine, di fronte a una realtà minacciosa. Certo, non mancano reti di protezione, forme di solidarietà, un tessuto civile, materiale e immateriale, che vince di gran lunga il confronto con tante altre realtà del nostro Paese. E comunque: anche noi ci troviamo scaraventati nei tormenti di una crisi che riguarda l’Italia, l’Europa; che varca i confini nazionali e continentali e ci proietta verso orizzonti globali, capaci di incidere direttamente, immediatamente sul locale; di scuotere, di percuotere la vita quotidiana: la qualità planetaria dei tempi sconvolge la qualità locale della vita di tutti. Nella vita associata degli uomini non ci sono leggi immutabili, inesorabili destini. Quel che si presenta come naturale, come inevitabile, in realtà è sempre una costruzione sociale: è la prevalenza di una economia, di una mentalità, di una cultura, storicamente situata, determinata. E per ciò stesso sempre rivedibile, trasformabile, eliminabile. Non c’è la Verità assoluta, nelle idee dominanti. «Le idee dominanti sono le idee della classe dominante»: sì, ripetiamolo, con buona pace di tanto provincialismo culturale, che da trent’anni in questo Paese trascura Marx come un cane morto. L’egemonia, oggi, è quella del sistema neoliberista. La dittatura è quella del cosiddetto «libero mercato» e della speculazione finanziaria. Che si presenta come «il fine», anzi come «la fine» della storia. E che rischia davvero di diventare la fine della storia. Ma non perché rappresenti l’acme, il punto culminante dell’umanità. Al contrario, perché sta producendo catastrofi. E le ripercussioni sono immediate, sulla vita di ciascuno di noi. Qualche dat noto, a disposizione di tutti, ma davvero emblematico. Sul piano ambientale. Prima della Rivoluzione industriale, sulla Terra spariva una specie animale ogni 10 anni; oggi se ne estinguono 74 al giorn una ogni 3 ore. Il deserto avanza di 3.500 km quadrati all’anno; 40 anni fa procedeva di un terzo (1500). Il 70% dei coralli sta morendo. Gli sconvolgimenti climatici producono le tragedie che sappiamo in ogni parte del mondo – e anche da noi, conseguenza dell’inquinamento, di una dissennata politica del suolo, lasciato alla mercé dell’incuria, di ogni speculazione, di ogni malaffare. Sul piano della vita e della dignità degli uomini. Tre miliardi di persone vivono nelle baracche, un miliardo soffre letteralmente la fame. Il 20% più ricco del pianeta consuma l’86% della produzione globale; al 20% più povero tocca l’1,3%. Si è calcolato che il numero degli individui più ricchi del mondo sia molto ristrett sarebbero 358. Ebbene, 358 individui, gli abitanti di un condominio neanche tanto grande, possiedono complessivamente un reddito annuo pari a quello di 3 miliardi di uomini. Un miliardo di bambini vive (e spesso muore) in guerra, in una qualunque delle tante guerre sparse per il pianeta. In Italia, il 10% della popolazione possiede il 45% della ricchezza nazionale, e il 90% (cioè quasi tutti) si divide l’altra metà. In Italia oggi si contano 10 milioni di poveri, la metà dei quali vive nelle condizioni che si definiscono di povertà assoluta: è l’8% della popolazione. Le diseguaglianze negli ultimi 30 anni si sono moltiplicate fino a 20/30 volte. In un Paese nel quale si riscopre l’emigrazione: non più quella del misero bracciante semianalfabeta, con la valigia di cartone; è l’emigrazione dei giovani, spesso laureati e diplomati, che vanno altrove per trovare non solo un lavoro degno, ma un varco verso il loro futuro, una prospettiva di vita. Oggi sono 106.000 all’anno, raddoppiati dal 2007: avanti così e diventeranno più di un milione in dieci anni, cioè dopodomani. Troppi laureati, recita una certa tiritera della Destra, cui ha ceduto più di qualcosa anche la Sinistra. Tutto al contrari troppo pochi laureati, e molti se ne vanno. E quando ti trovi in commissione per le tesi, ti accorgi che sono sempre meno, molto meno, anche solo rispetto a qualche anno fa, le famiglie «umili», che vengono a festeggiare con orgoglio il primo laureato di casa. Siamo abituati a ripetere che l’economico va soppiantando il politico, che le leggi del Dio-Mercato sgretolano le possibilità e l’autorità di ogni decisione politica. E in effetti è così, per molti aspetti: pensiamo a quanto si restringono gli spazi della democrazia, di fronte all’incedere, che sembra “oggettivo”, inarrestabile, dell’economia mondiale, e del suo pensiero unico. È in effetti così. Ma non è assolutamente così. Alla base delle logiche dell’economia, che si presentano come naturali e immodificabili, ci sono sempre precise vicende politiche, precise decisioni politiche. La svolta neoliberista comincia ad affermarsi con le politiche di Reagan negli Usa e della Thatcher in Inghilterra. Non è «natura», non è il naturale corso delle cose. Si tratta di precise scelte: scelte fallimentari, oltre tutto, sia sul piano economico, sia su quello sociale: il debito pubblico più alto del mondo; i servizi più costosi e meno funzionanti; la disuguaglianza come voragine sociale; enormi concentrazioni di ricchezza, investita non nella produzione ma nelle speculazioni finanziarie. Non la natura, ma precise vicende politiche sono alla base dell’affermarsi di questo sistema a dimensione planetaria: è la fine del bipolarismo, la fine di un comunismo oppressivo, rozzo e primitivo («da caserma», come fu capace di definirlo preventivamente il giovane Marx), ad aver aperto la strada a un liberismo globale, senza quelle reti sociali che perfino i maestri delle teorie liberiste avevano pensato alle origini, tre secoli fa. La politica è alla base dell’accumulazione capitalistica in Cina: c’è lo Stato, c’è il governo (un governo comunista!) che manda l’esercito quando gli operai protestano, proprio come accadeva nell’Inghilterra e nella Francia del Sei- Settecento. Il capitalismo non si è fatto e non si fa da solo. La trasparenza del libero mercato si alimenta della opacità di duri conflitti, di sofferenze, di imposizioni e discriminazioni. Tanto che per molti è «meglio» venire a lavorare in Italia, per 1 euro all’ora e 15 ore al giorno, in condizioni che noi consideriamo miserabili e loro vedono pur sempre come una possibilità di vivere, di vivere meglio. Non è tecnica, è politica. Il governo tecnico è il più feroce e dogmatico dei governi politici. I tecnici ci mettono quel tanto in più di protervia e saccenza: la «boria dei dotti», la chiamava Vico, convinti che quello che sanno sia eterno e perfetto. E poi magari sbagliano nelle competenze minute. Sbagliano perfino a fare i conti! Ma il guaio è che in questi casi non si sbaglia una teoria, un algoritmo, un saggio venuto male: si sbaglia sulla condizione di centinaia di migliaia di lavoratori, sulla loro vita, sulla loro pelle. I tecnici creano gli «esodati». Crudele ironia delle parole: Esodo è movimento grandioso, collettivo, verso la libertà e la liberazione, fuori dalla servitù. E qui, invece, diventa il rifluire sparso, isolato, avvilito, di tanti lavoratori fuori dal lavoro, di tanti cittadini fuori dalla cittadinanza. Fu un grave errore politico, la nascita del governo tecnico. Politica, non tecnica: è stata una scelta politica, non l’andamento oggettivo delle cose, a salvare il capitale finanziario e le banche dal tracollo causato dalle banche stesse, facendolo pagare, quel tracollo, ai ceti più deboli, alla vita di tutti i giorni di tutti. 2. La crisi, e l’Europa Non sono tecniche le scelte dell’Unione Europea, quelle scelte che rischiano di portare l’Europa stessa a una fine prematura e ingloriosa. Del rest un’Europa che pensa di esistere senza la Grecia è un’Europa già morta. La globalizzazione, nelle sue logiche attuali, ha prodotto una crisi generale della Sinistra, di ogni Sinistra; e in Europa, la crisi dello Stato sociale e delle sue istituzioni politiche. Dopo mezzo secolo di una sostanziale egemonia della Sinistra, adesso è in campo, in Europa, una vera e propria rivoluzione conservatrice della Destra. Si affermano anche qui le teorie e le pratiche dello «Stato minimo», che si ritrae dai servizi sociali, e dai diritti, ridotti e appaltati ai privati. Politiche economiche deflattive, contenimento dei servizi e dei salari, contenimento dei consumi, nessuna misura efficace a sostegno di una nuova crescita. Nessun reale freno alle grandi speculazioni finanziarie, le prime responsabili della crisi e le prime, in prima fila, a sentenziare sulla tenuta economica e perfino sulla qualità politica degli Stati e delle Costituzioni democratiche (della nostra Costituzione!). Un uso spregiudicato del fenomeno drammatico dell’emigrazione, insieme regolatore del costo del lavoro globale e capro espiatorio di ogni psicosi sociale alimentata dalla crisi, dalle insicurezze, dalle paure prodotte dalla crisi. Questa frana avanza, e non risparmia nessuno, neanche secolari esempi di civiltà europea, come l’Olanda, o i Paesi del Nord. Si fa largo un egoismo aggressiv quell’ «individualismo possessivo» che considera ciò che sta fuori di sé esclusivamente come una preda, come un possibile bottin la natura, gli altri, gli altri esseri viventi. Egoismi, individualismi, intolleranza, sfiducia nel collettiv nella possibilità di una impresa comune, nella partecipazione a un progetto solidale, condivis ciascuno, e ciascuna corporazione, rinchiusa nei suoi fortilizi, anche al livello più basso della scala sociale, pronta a trovare qualcuno che sta peggio, e contro il quale scaricare le proprie tensioni, le proprie frustrazioni: gli stranieri, i «diversi»; e le donne, «diverse» per antonomasia. Non è una bella Europa, quella che stiamo vivendo. E non fa bene all’Europa, la crisi della Sinistra. C’è bisogno di un’altra Europa. L’Europa di Mazzini, di Altiero Spinelli: l’Europa della solidarietà, dell’istruzione, della cultura. L’Europa che guarda il mondo dall’angolo dei più, degli «umiliati». Per questa Europa serve la rinascita della Sinistra, di una Sinistra che riprenda in mano le proprie parole, che le lanci come scandaglio nelle profondità del mondo, nelle profondità delle sofferenze del mondo. La Sinistra ha perso le sue parole, smarrite tra le macerie della sconfitta: ha perso orgoglio, prospettiva, entusiasmo, passione. Eppure solo nella Sinistra c’è una possibilità di salvezza, nel pericolo attuale. Serve una Sinistra nuova, salda, coerente, capace di lottare e di governare. Non mi impicco alle formule e agli schieramenti. Il PSE di Martin Schultz sembra disposto a rompere troppi, tradizionali indugi. L’esperienza greca di Syriza è affascinante perché, lontana dal puro spirito del settarismo e della testimonianza, coniuga al contrario radicalità e prospettiva di governo. Indica una strada, anche fuori dai confini della martoriata Grecia. Sì, governare. Altrimenti resta solo la sterile testimonianza; o l’urlo, la fiammata del momento; o peggio, l’insulto, l’improperio e la pochezza disarmante di prospettive demagogiche: uscire dall’euro, nazionalizzare le banche. Servono politiche europee contro l’austerità. Altre avventure, altre disavventure delle parole. Nel 1977 Enrico Berlinguer guardava all’«austerità» e al «rigore» nella produzione e soprattutto nei consumi come a un grande orizzonte etico e politico, in risposta all’emergente questione ecologica e alle terribili disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza mondiale. «Sobrietà», contro lo sprec anche come abitudine, costume di vita. Oggi l’austerità e il rigore hanno il volto arcigno dei forti. Serve crescita, contro questa austerità. Ma non una crescita qualsiasi: una crescita che implica la decrescita di tante vecchie cose. Serve una crescita al servizio di un nuovo modello di sviluppo, impostato sulle priorità dell’ambiente, dei servizi, della cultura, dell’istruzione, dei diritti. O l’Europa costruisce il suo futuro, il suo spazio vitale lungo questo orizzonte politico e ideale, o fallisce e sparisce dalla scena del mondo che conta, che decide del destino di tutti.

  •   Published On : 7 anni ago on Giugno 26, 2017
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  •   Last Updated : Giugno 26, 2017 @ 10:36 pm
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