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Ritorno in Romagna

     Maggio 15, 2018   No Comments

Energie Nuove – NUMERO 1 – aprile – maggio 2018

Ritorno in Romagna

di Roberto Balzani – Docente Università di Bologna

Tornare in Romagna? Ma ci siamo vissuti da sempre! Sì, ma con quali occhi l’abbiamo guardata? Anche se abbiamo cinquant’anni o anche meno, le lenti che indossiamo sono ancora quelle forgiate nel XX secolo: i partiti, le masse, i circoli, le feste. Le tradizioni, in una parola, del Novecento e anche di prima. E, dall’altra parte, le classi dirigenti, le élite finanziarie e gli attori economici – dalle cooperative alle banche, dal lavoro corporato ai vertici sindacali -: un quadro che ancora si autorappresenta, anche nelle tv locali, in virtù di un solido controllo delle risorse. Ma è questa la nostra società, cioè quella nella quale viviamo immersi tutti i giorni, che ci pare di conoscere perché la salutiamo per strada, nelle vie e nelle piazze a noi note?
Io credo che il decennio di crisi che abbiamo alle spalle abbia chiuso per sempre il Novecento; solo, stentiamo a prenderne atto, perché strumenti di analisi non ne abbiamo ancora forgiati. Abbiamo aggiustato quelli vecchi, nell’illusione che potessero servire ancora. Ma non è così. Prendiamo uno dei cardini della Repubblica costituzionale: il lavoro. Il lavoro, oggi, è una merce rara e preziosa, ma non veicola più identità; è utile, perché consente il consumo e il benessere, ma non è, di per sé, un valore intorno al quale saldare classi sociali o definire l’asse amico/nemico. Il lavoro si fa e basta: se è piacevole, meglio: ma solo rarissimamente profila le persone, trasferendo in esse anche altri principi, di ordine politico, culturale, antropologico. Lo sanno bene i sindacati, infatti, che da tempo sono impegnati ad allargare la sfera del proprio raggio d’azione a chi non lavora più, a chi non lavora ancora, ai diversamente attivi (rispetto alla norma del “produttore dipendente”).
Mi pare che gli stili di vita siano più efficaci, se si intendono raggruppare fasce di popolazione: persone che decidono il proprio regime alimentare, che perimetrano il proprio corpo, stabilendo confini biologici, o che semplicemente si affidano ai grandi modelli di consumo, e frequentano le “cattedrali” che li espongono e li vendono.
I centri storici non si riempiranno dei cittadini di una volta, perché essi non esistono più, o vivono molto meglio altrove: di qui una riflessione necessaria, di tipo sociale prima che urbanistico, sul futuro possibile delle nostre piccole città, che attrattori, magneti permanenti di grandi masse umane non diventeranno mai, nonostante le immaginifiche previsioni demografiche degli anni Cinquanta e sessanta, sulle cui basi abbiamo costruito la più imponente impermeabilizzazione del suolo romagnolo mai realizzata nella storia.
Ora è necessario tornare a guardare le cose per come sono: la campagna urbanizzata, senza confini, che attende una ricucitura; i bisogni degl’individui, soprattutto nel momento in cui avanza anche da noi a grandi passi l’“inverno demografico”; la mutazione relazionale che ha alterato i campi affettivi tradizionali; la realizzazione di spazi di vita “regionali”, in un contesto psicologico connesso al globale presentificato, che tuttavia non ci restituisce idee per il futuro, al massimo scorciatoie per sopravvivere nel presente. Quanti romagnoli “sopravvivono”? Quanti romagnoli “vivono”? Già solo rispondere a questa domanda costituirebbe una buona pista per ottenere uno straccio di risposta.
Cento, centocinquant’anni fa, i “realizzatori” che conformarono, ad esempio, la Cesena del futuro – penso ai Comandini, agli Angeli -, partivano da un progetto: rimettere in funzione la macchina del valore nelle campagne (mercé l’impiego di fertilizzanti, macchine, agrotecnici), poi prelevare una quota della rendita attraverso la fiscalità locale e reinvestirla nell’istruzione, nella sanità, nei servizi pubblici, pensando (correttamente), che un miglioramento generale delle condizioni collettive avrebbe generato volontà d’intraprendere e di moltiplicare la ricchezza. I mercati, allora, lo consentivano; lo consentivano i tanti giovani vivaci che ingombravano strade e piazze. Neppure due guerre mondiali fermarono quel moto avviato agli albori del XX secolo.
Oggi ci mancano quegli attori sociali, giacché la politica può aiutare, incoraggiare, favorire, ma non può sostituirsi alle forze profonde che muovono le persone. I “sindaci demiurghi” non esistono, non sono mai esistiti: essi incarnano modelli di trasformazione, oppure modelli di conservazione: tertium non datur. E non dipende – si badi bene – dalle sigle partitiche: parliamo dei soggetti e dei loro gruppi di riferimento, storicamente determinati. Raramente, lo confesso, ho incontrato nella mia esperienza amministratori “trasformatori”; più spesso, invece, tenaci difensori di un’economia pubblica estrattiva, per pochi o per i soliti, anche quando la confezione dell’offerta politica era luccicante e tirata a nuovo. E’, d’altronde, la via più semplice e la più redditizia, finché c’è una miniera da sfruttare, finché c’è un’eredità da dissipare. Ma dopo? La risposta più ovvia è: chissenefrega. “Dopo” ci penseranno altri.
Ecco perché, per “tornare in Romagna”, a cent’anni quasi dal “torniamo alla terra!” gridato da Spallcci sui primi numeri della “Piê” a conclusione del bagno di sangue della Grande Guerra, ci vuole qualcosa di diverso e di mai visto da tempo: una voglia autentica di leggere la realtà e di capirla. Un orizzonte in cui inquadrare la lettura. Un’ipotesi di società, valida almeno – per quanto possibile – nel nostro spazio regionale. E poi individui che si mettano in gioco, dandosi il tempo dettato dal disinteresse, assumendo psicologicamente la prospettiva di Cincinnato, lavorando per generazioni che forse non vedranno. E’ fattibile? E’ possibile? Io credo sia l’unico viottolo praticabile per noi, eredi culturali falliti di una generazione di costruttori, cui è rimasta solo l’ironia, mentre ci aggiriamo in un paesaggio di rovine o di architetture metafisiche indecifrabili.

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