di Davide Giacalone
La riforma del sistema elettorale assorbe la gran parte del dibattito politico. Sarebbe anche giusto, se servisse a cambiare marcia e rimettere in cammino l’Italia. Purtroppo non è così: l’accordo stipulato fra il Partito Democratico e Forza Italia riproduce lo schema nel quale è affogata la, così detta, seconda Repubblica: alleanze stipulate prima del voto, anche fra forze disomogenee, miranti a prendere un voto più degli avversari, quindi il premio di maggioranza, salvo poi dimostrarsi inadatti a governare. E’ vero che il sistema elettorale, da solo, senza riforme costituzionali della forma governo e del ruolo del Parlamento, non è in grado di cambiare la realtà, ma è anche vero che la riforma di cui si discute riproduce il passato. Mentre attorno a quella si agita un gran vociare, per due lunghi mesi, dalla fine di novembre alla fine di gennaio, s’è coperto d’un silenzio colpevole il contenuto di un decreto, falsamente intitolato all’Imu, con il quale è stata cambiata la natura proprietaria della Banca d’Italia e trasferito ad alcune banche patrimonio pubblico, per un valore di 7.5 miliardi. Una pagina pessima, un precedente pericoloso, una legge che creerà enormi problemi. Il ministro dell’economia, Fabrizio Saccomanni, presentò il decreto sostenendo che si sarebbe fatta della banca centrale una public company. Roba pazzesca, inesistente al mondo. Non c’è più tornato. Ma è mai possibile che dalla bocca di un ministro escano simili sfondoni? Attorno a questo tema abbiamo condotto una battaglia solitaria. Solo alla fine (dimenticando di fare opposizione al Senato) è arrivata la gazzarra del Movimento 5 Stelle. Pur con tutti i limiti e pur con tutte le, intollerabili, volgarità verbali, quella è stata l’unica vera opposizione. Che tristezza! All’insistenza dei nostri interventi sono state date solo risposte generiche. Ricordo le principali. 1. L’indipendenza della banca centrale non è garantita dall’assetto proprietario, ma dallo statuto e dalle leggi. Vero, ma è una tesi che dimostra tropp se è così la cosa migliore consiste nel renderla pienamente e totalmente statale (come altre banche centrali) e rivalutarne le quote, patrimonio pubblico. 2. La ricapitalizzazione è vitale per ripatrimonializzare le banche italiane. Questa obiezione apre la strada a una versione grossolana: si tratta di un regalo alle banche. Respinte entrambe le cose: il sistema bancario italiano conta più di 800 banche (troppe), quelle presenti nella proprietà di Bankitalia sono una sessantina, quindi più di 740 soggetti restano fuori. Sia dal regalo che dalla ricapitalizzazione. Sotto tale profilo, quindi, questo è il più squilibrato e dissennato rimedio alla sottocapitalizzazione. 3. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha auspicato che i proventi della ricapitalizzazione servano a “favorire il credito”. Ma il credito non è la benevolenza, bensì il mestiere delle banche: se solo alcune ricevono i proventi, potendo anche rivendere le quote in eccedenza, si distorce irrimediabilmente il mercato. 4. Le banche “beneficiate” sono tali perché investirono a suo tempo, sicché non fanno che raccogliere il frutto della loro lungimiranza. Stiamo scherzando? Nel 1936 le quote vennero intestate alle banche pubbliche, che non scelsero un bel niente né investiron obbedirono. Non c’è alcun merito, in ciò. Da allora a oggi il sistema ha subito una mutazione genetica, quindi l’enorme vantaggio andrebbe in capo a soggetti che nulla hanno a che vedere con quelli “costretti” allora. 5. La rivalutazione è comunque necessaria. Verissimo, anche perché siamo gli ultimi a farla, in Europa. Ma si tenga presente che saremmo anche gli unici a tassarci (12%) nel rivalutare quel che è già collettivo. Tutto per coprire il mancato gettito Imu: il tozzo di pane, per il quale si compromette un patrimonio immenso. Sono un sostenitore della vendita di patrimonio pubblico, al fine di abbattere il debito. Mi sento spesso rispondere che tale dottrina favorisce le svendite. Rispondo come si può e deve evitarle. Qui si è praticato il peggio. A fronte di tanta dissennatezza è arrivata l’umiliante bocciatura della Banca Centrale Europea, per due motivi. Il primo sembra formale, invece è sostanziale: ci avete chiesto un parere, che era obbligatorio chiedere, il 22 novembre e avete fatto il decreto, quindi un atto legislativo immediatamente esecutivo, il 27, cinque giorni dopo. Quando non solo non avevamo risposto, ma neanche ancora letto le carte. Tanto che la risposta è arrivata un mese dopo, il 27 dicembre. Attenzione, perché non è una questione di buone maniere, ma l’indicazione del vizio originario che il decreto legge si porta dietro, proprio per avere voluto usare quello strumento. Il secondo è devastante, perché dimostra il dilettantismo, porta un successo ai tedeschi e conferma tutti i nostri dubbi: il maggiore patrimonio portato dalla rivalutazione, destinato ad arricchire i bilanci di poche banche, non potrà farsi valere per il 2013, ma neanche per il 2014. Questo obbrobrio aveva un solo lato positivo, consistente nel mettere alcune nostre banche, le più grosse, in condizione di vantaggio prima della vigilanza europea. Tale unico lato positivo non esiste più. E il perché è esattamente quel che avvertivam non ci crede nessuno che le quote eccedenti il 3% potranno essere negoziate, e se non sono negoziabili, se sono solo in conto vendita, non possono essere iscritte a patrimonio per la vigilanza. “Le quote – scrive la Bce – vanno registrate nelle attività detenute per la negoziazione al valore precedente l’operazione di rivalutazione”. Questo perché il decreto “non definisce le modalità di acquisto temporaneo”, da parte della stessa banca centrale. Un Parlamento sordo, accompagnato da una classe dirigente muta, non s’è fermato. Lo scempio è ora legge. Questa stessa classe politica, questo stesso ceto governante, tornerà a chiedere agli italiani di onorare una pressione fiscale insopportabile. Nel mentre la sofferenza del sistema produttivo e dei cittadini cresce, gli autori di tale capolavoro dovrebbero avere l’autorevolezza per imporre i dolori necessari a uscire dalla condizione in cui ci troviamo. Si capisce meglio, allora, perché sperano che tutti si prenda a parlare solo del sistema elettorale, o di come la sinistra vuol smontare la distruttiva riforma del Titolo Quinto della Costituzione, fatta dalla stessa sinistra. La scuola che ci introdusse al senso dello Stato, che c’insegnò quanto la politica ha senso solo se ispirata a una certa idea dell’Italia, reclama da noi la più assoluta intransigenza, rispetto a quel che accade.