di Luigi Tivelli
Nel quadro di una classe politica asfittica, afflitta da enfisema dei polmoni delle idee, e in presenza di un Governo dal respiro corto e incapace di guardare al di là del brevissimo termine, l’Italia avrebbe più che mai bisogno invece di un progetto complessivo di sviluppo, di una nuova idea di futuro: unica via per superare gli affanni della depressione, che dura da sette anni, e della sostanziale stagnazione, che dura da un ventennio, che nel mio ultimo libro ho definito come brutte époque. Su quali basi poggiare questo progetto di sviluppo?
Come è noto, l’Italia è il Paese delle 100 città, e delle centinaia di distretti industriali ben radicati nei loro territori, spesso cresciuti e maturati per via spontanea, più o meno organizzati, quasi sempre fatti di piccole e medie imprese, in molti casi con un forte orientamento all’esportazione che ne sostiene la competitività.
Molti di questi distretti sono caratterizzati da un forte legame con le tradizioni e la cultura del territorio di riferimento, alimentato anche da fondazioni bancarie o banche locali, come nel caso della nostra amata Romagna.
E’ da questo brodo di coltura, che fa del nostro panorama industriale un unicum più volte studiato e messo sotto osservazione anche da studiosi stranieri, che bisogna ripartire per alimentare e sostenere il recupero di competitività, e la crescita. Ed è dentro il brodo di coltura dei distretti, in cui opera un fertilizzante naturale dello sviluppo imprenditoriale, che possono svilupparsi nuove forme di imprenditorialità, idonee a coinvolgere anche fasce di imprenditoria giovanile e femminile.
Penso, ad esempio, a imprese che possano nascere dalla valorizzazione imprenditoriale di settori sin qui abbandonati o malauguratamente affidati ad un settore pubblico sprecone e inefficiente, come quelli dei beni ambientali e dei beni culturali.
E qui veniamo al punto. Quello che distingue l’Italia dagli altri grandi Paesi europei, anche nei territori in cui il tessuto imprenditoriale privato è dinamico, vitale e competitivo, è che l’imprenditore rischia sempre di cadere in quella sorta di “triangolo delle Bermuda” che uno stato pesante e oppressivo gli ha messo intorno. I tre lati di questo triangolo perverso, su cui tante imprese si sono inabissate o rischiano di inabissarsi, sono: una spesa pubblica massiccia che supera il 50 percento del PIL, una tassazione effettiva che va oltre il 55 percento del PIL e una pressione burocratica oppressiva per le imprese.
Il piccolo-medio imprenditore pertanto, lungi dal ritrovarsi uno Stato-amico o uno Stato-facilitatore, si ritrova uno Stato-oppressore. E non è certo che le Regioni e i Comuni, a parte qualche best practice, diano prove molto migliori.
A questo punto la ricetta per favorire la liberazione delle energie imprenditoriali migliori nei territori e nei distretti (che in questo caso vale in parte anche per le grandi imprese) è per certi versi pronta. Meno spesa pubblica, e quindi meno tassazione e, ultimo ma non meno importante, forte semplificazione burocratica.
Ma questo di per sé non può bastare. Il territorio italiano non vede solo i distretti e una fittissima costellazione di ottomila comuni, compresi comunelli di 3 o 400 anime. Accanto a tale costellazione ci sono più o meno altrettante municipalizzate o enti pubblici che non brillano certo per efficienza e qualità del servizio.
Ebbene, di tanto in tanto viene proposta dal Governo, o addirittura passa in Parlamento, una legge che prevede la liberalizzazione o la privatizzazione dei cosiddetti servizi pubblici locali, ma poi, per qualche cavillo, tutto si blocca.
E decine di migliaia di lottizzati rimangono impancati nelle poltroncine dei Consigli di amministrazione di questi enti, spesso inutili, e fonti di sprechi e di inefficienze. Eppure, nella nostra Costituzione è scolpito il concetto di sussidiarietà orizzontale, che significa che il settore pubblico deve fare solo quelle cose che i privati non possono fare meglio e a costi minori.
Ebbene, tornando all’Italia dei territori e dei distretti, restituire ai privati, alle cooperative, all’associazionismo, attività ora svolte da enti pubblici o municipalizzate, genererebbe un nuovo ossigeno imprenditoriale, favorirebbe soprattutto l’occupazione giovanile e femminile e permetterebbe a tali nuove imprese di integrarsi nel tessuto produttivo esistente, aprendo opportunità interessanti di nuovo sviluppo imprenditoriale, come la cultura e l’ambiente.
Perché, ad esempio, il piccolo museo di una cittadina toscana di antiche tradizioni deve essere gestito burocraticamente dal Comune con un Presidente e un Consiglio di Amministrazione, 15 dipendenti, e non affidato ad una cooperativa di giovani qualificati che ne farebbero una gestione molto più viva e dinamica?
L’Italia si trova davanti ad un bivio fondamentale della sua storia. E’ come un paziente molto obeso per il fatto di avere ingerito troppe pillole di settore pubblico. E di “troppo Stato” i paesi possono anche morire, perché troppo Stato significa troppa spesa pubblica, troppe tasse, troppo deficit, troppo debito pubblico, etc..
Pertanto ripartire dai territori, dalla cultura dei territori, ricostruire nuove filiere produttive, puntare alla valorizzazione dei beni ambientali e culturali, ricercare il recupero di competitività e il rafforzamento dell’orientamento all’esportazione, è la via giusta. Ma è una via che può funzionare solo se contemporaneamente, operando sia al centro che negli stessi territori, si mette a severa dieta il settore pubblico, e si spostano man mano pezzi del confuso mosaico del settore pubblico verso il privato.
Si configurerebbero così nuove forme di integrazione e collaborazione fra pubblico e privato e nuove opportunità imprenditoriali soprattutto, ma non solo, per i soggetti insieme più deboli e più vitali della società italiana, i giovani e le donne.
Se rifletto su quanto ho scritto, devo ammettere che si tratta di un progetto ambizioso, ma poggiato su basi solide, in buona parte già presenti nel corpo e nelle gambe della società italiana, suscettibile di comportare una sorta di “Nuovo Rinascimento”. Basi che però mi sembrano mancare nella “testa”, cioè nelle classi politiche e nelle classi dirigenti, compresa la stessa classe di governo. Spetta a noi cittadini, imprenditori, intellettuali, professionisti, incalzare ed essere pronti a sostituire questo pessimo ceto dirigente che ha rubato il presente ed il futuro a più di una generazione di giovani italiani, regalandoci, tra le altre cose, una disoccupazione giovanile al 40 percento e un altro dato che è l’indicatore del fallimento di tutto un ceto dirigente: ovvero il caso, paragonabile in proporzione solo alla Grecia tra i Paesi europei, di ben 2 milioni e 250 mila giovani under 29 che né studiano né lavorano!