di Sandro Gozi
Nel 2008 Barack Obama vinse le presidenziali americane – un evento destinato a rimanere scolpito nella memoria di intere generazioni – puntando su una parola chiave: change. Cambiamento. C’era naturalmente una narrazione potente dietro la campagna elettorale del partito democratico americano, ma quella sola parola, change, segnò un passaggio fondamentale per la politica statunitense e per l’intera società globale.
Nello stesso anno, il 2008, il Partito Democratico guidato da Walter Veltroni si presentava come l’interprete di un diffuso sentimento di rinnovamento, che purtroppo non fu sufficiente a evitare la sconfitta elettorale. Quel Pd perse, è vero, ma per la prima volta milioni di cittadini si trovarono coinvolti in un progetto che guardava al futuro e che prometteva di aprire nuove strade nella politica italiana.
Guardiamo all’oggi. Barack Obama ha mantenuto saldo il timone del cambiamento, ha rivendicato le proprie scelte e ha vinto nuovamente le elezioni. Il partito democratico italiano invece è reduce da una stagione politica disastrosa, culminata nella sconfitta elettorale e nel caos successivo. Ci sono naturalmente tante ragioni e tante motivazioni per spiegare quel che è successo, ma la radice è comune. Il problema vero, e irrisolto, è che le forze progressiste hanno rinunciato a cambiare. Cambiare se stesse per cambiare la società. E hanno irrimediabilmente perso.
Sia ben chiaro: cambiare per cambiare non serve a nulla. Ma se la sinistra perde la propria vocazione alla trasformazione, cade nella palude dell’immobilismo. Non esiste forza progressista al mondo che non lotti per modificare l’esistente: una semplice accettazione della realtà si traduce nel conservatorismo più banale. Non è per questo che impegniamo ogni giorno le nostre energie migliori.
Ma quale dev’essere la direzione del cambiamento? La partita si gioca su molteplici e intrecciati piani. Ne indico tre: Europa, Italia e territorio.
Europa. Mai come in questo momento non possiamo dirci soddisfatti di come stanno andando le cose a Bruxelles. Mai come in questo momento la distanza tra il grande sogno europeista dei nostri padri e la navigazione a vista degli attuali governanti è profonda. Abbiamo parlato così tanto di spread che alla fine abbiamo lasciato che tutto girasse attorno ad esso. E non ci siamo accorti che non di sola finanza vive l’uomo: mentre registravamo ogni oscillazione degli indicatori economici, lasciavamo che decine e decine di migranti affondassero nel nostro mare. Il mare di Lampedusa. Il mare dell’Europa. La realtà è che non è possibile un’Europa dei mercati senza costruire di pari passo un’Europa dei diritti. Se davvero vogliamo chiudere l’epoca dell’austerity, dobbiamo essere in grado, noi progressisti prima degli altri, di immaginare un altro modello di sviluppo. Identitario ancora prima che economico. Centrato sulla libertà dell’individuo ma capace di aprirsi alle istanze di coloro che rischiano di essere dimenticati nel vortice della società globale.
Italia. Il paese dei gattopardi. Di chi, per definizione, si oppone a qualsiasi tipo di cambiamento, preferendo appiattirsi sull’usato sicuro piuttosto che giocare in campo aperto. Questa non è l’Italia che vogliamo. Non è l’Italia per cui è stato creato il partito democratico. Ecco perché il compito del partito democratico dev’essere quello di guidare il paese: sia in questo momento, col governo Letta-Alfano, che in futuro, e cioè preparandosi alle prossime elezioni. Quel che si può – e si deve – fare ora è dettare l’agenda al governo. Combattere per le battaglie che riteniamo giuste: un esempio su tutti, la legge elettorale. Non vogliamo restare invischiati in una sorta di Dc 2.0: il ruolo del Pd dev’essere quello di rappresentare tutti i progressisti nell’ambito di una competizione elettorale bipolarista. Come accade negli altri paesi europei. Ma chi davvero tiene al cambiamento, non può che guardare al futuro. E il futuro si chiama congresso Pd, vero momento di rinascita per un popolo – quello democratico – che da troppi anni viene deluso da una leadership esitante. Nessun cambiamento sarà possibile se ad impersonarlo saranno gli stessi volti che da troppi anni ci spiegano come e cosa fare (per poi perdere puntualmente). È il momento di costruire veramente il Pd, riprendendo il filo che dal Lingotto 2007 ci possa portare verso una società diversa e finalmente libera dalle maglie del passato.
Territorio. Quindi Cesena. Quindi necessità assoluta di immaginare un percorso diverso da quello intravisto fino ad oggi. A partire dalla necessità di rinnovare in primo luogo il Pd territoriale: serve nuova linfa nelle vene di un partito fiaccato da anni di immobilismo. E va ripensato tutto un modello che ha imperato nella nostra zona, fino a mostrare la corda, con troppe sconfitte sia elettorali che politiche. Perché serve un Pd autonomo, indipendente e forte? Perché nel nostro territorio c’è un disperato bisogno non di politica ma di politiche. La buona amministrazione da sola non basta: questa è stata la grave illusione di questi anni. Se la politica si limita a fare da grancassa a decisioni amministrative già prese, perde la capacità di trasmettere un’emozione. E finisce col chiudersi a riccio alle nuove istanze della società, perché l’unica cosa che conta è il mantenimento di un network di relazioni tra gruppi di potere. Cambiare è essenziale per sopravvivere: non si può più prescindere dalla selezione di una nuova classe politica, fondata veramente sul merito e non più sulla cooptazione. Nei comuni del nostro territorio, quando ci si è limitati a conservare le rendite di posizione si è andati incontro a sconfitte cocenti. Occorre prima di tutto avere il coraggio di condurre delle battaglie, in nome dell’istruzione, dei diritti, della cultura, dell’ambientalismo. Questa è la sinistra che serve ai cittadini, poiché dà risposte concrete a istanze avvertite come importanti, allontanando lo spettro dei populismi.
Sappiamo che il compito che ci attende è enorme. Sappiamo che dovremo vincere le resistenze dei conservatorismi di destra e di sinistra. Sappiamo che ogni piano sul quale ci confrontiamo – locale, nazionale e internazionale – presenta insidie e rischi. Ma se, dopotutto, c’è un motivo per cui la sinistra è ancora lì, è perché prima ancora del cambiamento è capace di regalare un sentimento: la speranza. Da qui dobbiamo ripartire, e da qui ripartiremo.