di Emanuele Chesi
Il destino dell’Ausl unica di Romagna si compirà inevitabilmente il prossimo 1° gennaio. La Regione ha sancito la costituzione della maxi azienda sanitaria da un milione di pazienti dietro la sollecitazione dei sindaci del territorio. Ma questo ‘parto’ lungamente auspicato dalla maggioranza governativa di centrosinistra (e altrettanto vigorosamente contrastato in sede politica e anche professionale) rischia di stemperare l’emozione dell’evento in un’insipida trafila burocratica. Intanto la paternità della ‘creatura’ viene attribuita ormai unanimemente al concetto di risparmio, lasciando in ombra il senso progressivo di miglioramento del servizio, di adeguamento della qualità alle esigenze dell’utente finale. Poi, ed è materia di questi giorni, tutto il dibattito politico, dalla capitale regionale alla Romagna, verte sul tema della ‘governance’. Parola orrenda e tecnica che, in questo caso, copre sia l’assetto organizzativo e decisionale che il vero e proprio ‘bastone del comando’. In sostanza la Romagna — i sindaci in primis — teme la costituzione di una direzione generale plenipotenziaria. Il sindaco Lucchi ha usato parole inequivocabili: «Dalla nuova azienda sanitaria unica della Romagna ci aspettiamo una gestione distrettualizzata (e cioè molto radicata sui territori, in grado di intervenire in tempi rapidi per migliorare la rete dei servizi ed anche per mutarla, se necessario); nella quale la governance territoriale sia saldamente nelle mani della Conferenza sanitaria e dei sindaci di tutta la Romagna, che la comporranno (e non quindi della Regione o del direttore generale); rispettosa dei patrimoni esistenti all’interno delle strutture ospedaliere attuali». Come non sottoscriverle? Il timore è però che non basti questa sottolineatura a plasmare un’Ausl unica all’altezza dei desideri dei cittadini. Capace di ‘scaldare’ i cuori e superare resistenze e perplessità. C’è bisogno di ben altro. Due esempi: la risoluzione (o almeno l’avvio di una soluzione) dell’enorme problema delle liste d’attese per esami diagnostici e visite specialistiche; l’adeguamento della capacità ricettiva del pronto soccorso. Sul primo punto non mancano le direzioni possibili: dall’incremento dell’utilizzo delle strutture (vedi l’esempio delle ‘aperture serali’ degli ospedali veneti) a sinergie più estese con le strutture private. Sul secondo, basterebbe forse la presa d’atto che la situazione è insostenibile, oltre il limite dello scandalo, non esorcizzabile con dichiarazioni dei vertici sanitari che scaricano tutta la responsabilità sull’accesso immotivato dei pazienti.