di Carlo Flamigni
Continua il dibattito promosso da Energie Nuove.
Pubblichiamo la visione e le opinioni puntuali, ricche e stimolanti del prof. Carlo Flamigni, membro del Comitato nazionale di Bioetica.
Gli siamo particolarmente grati di questo intervento
“Ho scelto alcune parole chiave, che commenterò separatamente ma che fanno parte di un unico complesso argomento, bisogna avere le idee chiare su tutte per avvicinarsi (non più che avvicinarsi) a una adeguata comprensione del problema. Le ho messe alla rinfusa, senza alcun senso logico, come mi venivano im mente. La prima è:
Stato vegetativo
Lo stato vegetativo appartiene alla famiglia allargata dei coma, definita anche degli stati neurobiologici a basso livello – low level neurological state.
Attualmente per riferirsi a queste forme di patologia si usano tre espressioni: coma, sindrome locked in e stato vegetativo.
Il coma è uno stato di assenza di reattività psicologica non suscettibile di risveglio in cui il soggetto giace a occhi chiusi in uno stato di incoscienza e di incapacità di reagire agli stimoli esterni. Simile al sonno, è il risultato di una sofferenza cerebrale, (brain failure, secondo gli anglosassoni) e viene classificato in rapporto alla sua gravità e alle probabilità di recupero delle funzioni cerebrali.
Lo stato vegetativo, forse il meno compreso e il più controverso disturbo della coscienza, segue in genere uno stato di coma causato da una grave lesione cerebrale di tipo traumatico, anossico, ischemico, emorragico, tossico, infettivo o da compressione di masse tumorali non trattabili. Più raramente è causato da malattie metaboliche degenerative come il morbo di Alzheimer, o da malformazioni dell’encefalo come l’anencefalia, uniche condizioni che non sono precedute dal coma.
E’ una condizione nella quale manca completamente la coscienza di sé e dell’ambiente, accompagnata dal mantenimento del ritmo sonno – veglia mentre sono mantenute, in modo completo o parziale, le funzioni autonomiche.
Esistono condizioni patologiche affini per le quali è necessaria una valutazione differenziale e che causano un tasso elevato di errori diagnostici: la sindrome di deafferentazione (locked-in syndrome), una apparente condizione di coma in cui le lesioni subite interrompono le vie motorie e le vie di comunicazione che dagli emisferi arrivano alle cellule nervose che innervano i muscoli periferici. Lo stato di coscienza viene mantenuto in quanto il sistema reticolare attivatore non è intaccato, per cui il paziente ha piena percezione di sé e dell’ambiente e le funzioni cognitive e intellettive rimangono integre. Il danno non riguarda diffusamente la corteccia ma il tronco encefalico. Di questa sindrome esistono diverse forme classificate a seconda del tipo di movimenti volontari residui, che riguardano molto pesso solo l’apertura e la chiusura degli occhi.
Lo stato minimamente responsivo, o minimally conscious state, è uno stadio intermedio tra lo stato vegetativo e la condizione di piena coscienza. Può essere transitorio o permanente. Ci sono limitati e intermittenti segni di consapevolezza e i soggetti riescono a compiere ogni tanto alcune semplici azioni, come rispondere a un comando e anche comunicare con parole semplici. Queste persone possono provare dolore e sofferenza e avere qualche consapevolezza della propria immobilità, della dipendenza dagli altri, della perdita del controllo degli sfinteri.
Lo stato vegetativo è stato descritto per la prima volta da Kretschner nel 1940, come uno stato post- comatoso in cui il paziente, apparentemente vigile, non è cosciente. Kretschner chiamò questa condizione sindrome apallica, la parola vegetativo è stata utilizzata per la prima volta da Arnaud nel 1963 con l’espressione vie vegetative e qualche anno dopo da Troupp con il termine vegetative survival.
L’espressione stato vegetativo persistente è del 1973 (fu suggerita da Fred Plum, un neurologo americano, e da Bryan Jennet, un medico scozzese) per descrivere una nuova sindrome che sembrava comparire grazie alla possibilità della medicina moderna di mantenere in vita il corpo dei pazienti che avevano subito gravi lesioni encefaliche. Plum constatò che non erano necessarie gravi o estese lesioni corticali e che la corteccia poteva essere totalmente disattivata senza essere strutturalmente danneggiata: esisteva invece molto spesso un danno irreversibile della sostanza bianca o del talamo.
Ecco la sua descrizione: il paziente ha gli occhi aperti o li apre dopo intensa stimolazione nervosa, mostra movimenti oculari erratici, ma non di inseguimento, muove gli arti, ma non intenzionalmente, emette suoni, ma non parole. Sono presenti alcuni atti motori involontari (il paziente cerca di afferrare oggetti inesistenti, mostra i denti in una sorta di trisma facciale) ma riesce a masticare e a deglutire. Ecco insomma cosa accade: in linea di massima le attività cognitive e vegetative, da sempre connesse tra loro – e che alla morte vengono meno tutte insieme – si dissociano: le funzioni vegetative, quelle necessarie alla sopravvivenza dell’organismo, vengono ripristinate e mantenute mentre gli apparati sensitivo, cognitivo e motorio perdono, in alcuni casi definitivamente, la loro funzionalità. Insieme all’abolizione della coscienza viene meno la possibilità di relazione interiore con se stessi e con l’ambiente.
Forse è bene ricordare che per coscienza si intende la presenza contemporanea di almeno due componenti, e cioè:
– la vigilanza, lo stare ad occhi aperti, lo stato di veglia
– la consapevolezza, l’insieme delle funzioni cognitive e affettive, delle attività mentali che occupano in un determinato momento la mente (il contenuto).
La vigilanza è necessaria per la manifestazione dei contenuti, nel senso che è necessario superare la soglia della veglia per esplicare e assorbire contenuti. Nello stesso tempo essa può essere presente senza alcun contenuto esplorabile della coscienza.
Entrambe le componenti, vigilanza e consapevolezza, sottintendono un substrato anatomo-funzionale perché i processi cerebrali necessari per una attività cosciente siano realizzabili. Se questi vengono meno, si determinano patologie diverse a seconda della parte traumatizzata. Nello stato vegetativo persistente il tronco, o meglio il sistema reticolare che presiede alla funzione della vigilanza, rimane integro mentre la connettività tra aree cerebrali normalmente interconnesse viene meno, come vengono meno le interazioni tra talamo, corteccia e tronco, responsabili dei contenuti di coscienza. Lo stato vegetativo persistente è una interconnession syndrome, possono esistere solo isole di attività neuronale isolate, che non consentono però uno stato di coscienza.
Esistono alcune altre proprietà dello stato di coscienza che sono:
-la possibilità di avere relazione con il mondo (però nella locked in syndrome questa capacità risulta persa senza che la coscienza ne risulti alterata);
-la memoria, il raffronto continuo tra esperienze passate e dati sensoriali appena acquisiti;
-l’attenzione selettiva, la volontaria concentrazione della coscienza su uno stimolo.
E’ difficile verificare in alcuni casi fino a che punto la coscienza sia soppressa, e se lo sia definitivamente, ma si conviene che la persistenza di isolati focolai di attività corticale, anche se associati con alcuni schemi comportamentali stereotipati, non indicano la persistenza di un livello anche minimo di coscienza. Insomma per essere coscienti non è sufficiente avere alcune parti anatomiche isolate che accidentalmente reagiscono agli stimoli, ma serve l’interazione complessa di diverse sezioni encefaliche.
I medici sono da tempo giunti a un consenso per quanto riguarda le condizioni necessarie perché si possa perfezionare la diagnosi di stato vegetativo persistente:
a)nessuna consapevolezza di sé o dell’ambiente;
b)incapacità di interagire;
c)nessuna evidenza di comportamenti riproducibili,
finalizzati o volontari in risposta a stimoli uditivi, tattili o
dolorosi;
d)nessun segno di comprensione o espressione verbale;
– uno stato di intermittente vigilanza compatibile con il ritmo
sonno veglia;
e)il parziale mantenimento delle funzioni del tronco e
dell’ipotalamo sufficienti a garantire la sopravvivenza in
presenza di cure mediche;
f)incontinenza;
g)variabile conservazione delle risposte riflesse dei nervi
cranici.
Immaginiamo adesso di lavorare in un istituto di neurologia e di avere ricoverato un paziente che è, da un certo periodo di tempo, in uno stato neurovegetativo persistente. Avremo anzitutto preoccupazioni di ordine clinico, come ho detto non sempre la diagnosi è semplice e in alcuni casi è richiesta molta attenzione perché la diagnosi differenziale con condizioni patologiche consimili può presentare difficoltà. Una volta accertato che si tratta di uno stato vegetativo e valutata l’entità delle lesioni, sarà poi nostra preoccupazione cercare di formulare una prognosi, cioè stabilire se esistono probabilità che il paziente possa uscire da quella condizione di incoscienza o se lo stato vegetativo debba invece essere considerato permanente, cioè definitivo. Certamente verremo molto aiutati dai consensi che esistono su questi temi, ma dovremo avere ben presente il fatto che i consensi non sono verità rivelate e che la medicina non è una scienza esatta, ma solo una disciplina biologica. Ma ammettiamo di trovarci di fronte a un caso in cui il tempo trascorso in condizioni di incoscienza, il tipo di lesioni, gli accertamenti strumentali tutti, ci confermano nella certezza che per quella persona non esiste la possibilità di un recupero. E’, per intenderci, quello che è successo nel caso di Eluana Englaro.
Immagino che in una situazione siffatta dovremmo chiedere ai parenti e agli amici più cari del paziente se lo avevano mai sentito esprimersi su questo argomento, se aveva mai dichiarato, quando poteva farlo, la propria indisponibilità alle cure mediche nel caso fosse stato evidente che si trattava di interventi inutili, rivolti solo a mantenere un vita il suo corpo dopo che tutto quello che faceva di lui una persona – intelligenza, sensibilità, capacità di comunicare e di entrare in relazione con il mondo, dite voi – se ne era andato per sempre. E immaginate di scoprire che sì, in effetti quel paziente aveva dichiarato, più volte, di voler rifiutare, in quelle condizioni, ogni specie di trattamento e di cura.
Alla fine delle vostre indagini, dunque, vi trovate a dover gestire un corpo che è stato abbandonato dalla persona che lo ha abitato a lungo, un corpo nel quale tutte le cellule sono in grado di sopravvivere, ma che è ormai e per sempre privo di intelligenza, coscienza, sensibilità, di tutto quello per cui le persone che ora piangono fuori dalla porta gli hanno voluto bene, lo hanno amato e apprezzato. E quella persona che se ne è andata per sempre vi invia anche, tramite i suoi amici, il suo ultimo messaggio, la sua ultima richiesta: rispetta il mio povero involucro, lascialo morire in pace.
Credo che una gran parte di noi, in queste circostanze, non avrebbe perplessità, saprebbe chiaramente come comportarsi. Nella realtà e nella pratica, però, non è così, e la maggioranza dei medici si ritiene obbligata a mantenere in vita quell’involucro, per permettere all’intestino di avere la sua peristalsi, alla barba di crescere, ai reni di filtrare urina.
Questo è anche il parere della maggioranza dei medici, anche se da parte di alcuni medici cattolici – e solo da loro – arrivano proteste e opinioni in aperto contrasto. Ad esempio, nel luglio del 2008 25 neurologi hanno indirizzato una lettera alla Procura generale presso la Corte d’Appello di Milano per protestare contro di quella che sarebbe stata, a loro avviso, una sentenza di morte. L’unica cosa di rilievo contenuta nella lettera riguarda l’esistenza di studi recenti di imaging funzionale e di neurofisiologa clinica che dimostrano che in alcuni pazienti in stato vegetativo è possibile evocare risposte che testimoniano di una residua possibilità di percepire impulsi dall’ambiente con conseguente analisi e discriminazione delle informazioni. In realtà si tratta di ricerche sperimentali, rese particolarmente dubbio dal fatto che la base anatomica e fisiologica della coscienza non è nota, prevalentemente eseguite su soggetti in stato vegetativo da poco tempo. Scrive Defanti, a proposito di questi dubbi sull’irreversibilità dello stato di Eluana Englaro, che ammettendo per assurdo che un soggetto in stato vegetativo da quasi 20 anni potesse riemergere dal suo stato di incoscienza, il meglio che si potrebbe attendere sarebbe la ripresa di un minimo contatto con l’ambiente e di qualche capacità senziente In altri termini si verrebbe a trovare in uno “stato di minima coscienza” in cui, pur restando del tutto incapace di comprendere quanto lo circonda, acquisirebbe la capacità di soffrire, un ben magro progresso.
Il testamento biologico
La necessità di affiancare al testamento tradizionale, quello che contiene le ultime volontà patrimoniali, anche un documento che contenga le decisioni in merito alla propria vita e al modo in cui si desidera che essa si spenga sono soprattutto frutto della cultura giuridica americana e risalgono a più di un secolo fa, e precisamente a una proposta di legge presentata nello Stato dell’Ohio nel 1906 che intendeva legalizzare l’eutanasia. Nel 1950 un altro Stato americano, la Virginia, approvò una legge ( alla quale i testi fanno riferimento come Law of agency) che prevedeva una revisione del potere di procura delineando una differente figura alla quale si poteva affidare non solo la tutela degli interessi patrimoniali, ma anche la cura di problemi personali tra i quali erano comprese le prestazioni sanitarie. La logica di queste nuove leggi risponde sempre di più a bisogni personali e privati per risolvere i quali si ricorre a interventi volontari e che trova punti di contatto ed esigenze comuni anche dove nessuno li aveva mai scorti prima, l’aborto e l’eutanasia, la contraccezione.
Per la prima volta dunque, nei tribunali americani, si discute del diritto di morire, di morire cioè secondo certe regole, e se ne parla come di un corollario del diritto di vivere.
In una sentenza di quegli anni si legge che il cuore della libertà è rappresentato dal diritto di definire il proprio concetto di esistenza e di esprimersi nei confronti del mistero della vita umana e del suo significato: se le opinioni su questi argomenti fossero imposte dallo stato con leggi specifiche, i cittadini non potrebbero più determinare la propria personalità.
Nel 1991 viene approvata una legge federale, il Patient self-determination act, che contiene norme che hanno a che fare con il consenso informato e il diritto alla salute e altre che riguardano più direttamente l’eutanasia e il diritto di morire: si tratta di una legge ambigua, che contiene non poche contraddizioni, destinate ad emergere negli anni successivi. Ad esempio autorizza la stesura di disposizioni anticipate che contengono il rifiuto dell’alimentazione artificiale, ignorando che su questo specifico punto altri stati hanno già legiferato in senso contrario.
In Europa la discussione sul testamento biologico comincia agli inizi degli anni’90 in Olanda e in Danimarca, ma si tratta di un vero e proprio corollario alla legge sull’eutanasia; in Belgio, nel 2002, le dichiarazioni anticipate di trattamento sono contenute all’interno della legge sull’eutanasia.
Sempre nel 2002 la Spagna approva una legge sulle Istruzioni anticipate che ha per oggetto l’autonomia del malato e l’obbligo di informarlo compiutamente sulle sue condizioni di salute. L’argomento è oggetto di un serrato dibattito anche in Inghilterra, dove però non si riesce a trovare un accordo e il tema, alla fine, viene accantonato. Esiste però in quel Paese un’ampia giurisprudenza favorevole a legittimare le scelte dei cittadini: il trattamento medico, inclusa l’alimentazione artificiale, può legalmente non essere dato a un paziente non cosciente, senza speranza di recupero se il medico curante considera che questa scelta sia nel 2miglior interesse “ del paziente che non potrebbe trarre, dal proseguimento delle cure, alcun giovamento.
Italia e Germania cominciano a mostrare interesse sul testamento biologico quasi nello stesso periodo, più o meno agli inizi degli anni). Per quanto riguarda la Germania, l’unica cosa cui si può fare riferimento è una sentenza della corte di appello di Francoforte che riguarda l’eutanasia dei malati in coma irreversibile, autorizzabile da un magistrato solo se esistono prove che il paziente si era espresso in favore di quella soluzione. Per quanto ci riguarda, è noto che esistono varie proposte di legge, ma la maggior parte dei laici è convinta che se il Parlamento deciderà di approvarne una sceglierà certamente la peggiore possibile.
Tutti i Paesi che hanno legiferato su questo tema si sono dovuti confrontare con due difficoltà: la prima, di ordine squisitamente etico, riguarda l’interpretazione complessiva dei suoi contenuti, aspetti peculiari del grande capitolo dell’eutanasia o regole per normare meglio il consenso informato? La seconda difficoltà è di tipo giuridico e riguarda il modo di convertire la logica patrimoniale del testamento in una scelta personale ed esistenziale. Pensato solo a quanto è difficile tradurre living will senza tradirne il significato originale e a quanti differenti tentativi sono stati fatti: testamento di vita, testamento per la vita, testamento biologico, documento per la vita, biocard, direttive anticipate di trattamento, volontà previe di trattamento, dichiarazioni di volontà anticipate, procura sanitaria, carta di autodeterminazione.
Il primo problema è stato affrontato dalla Convenzione di Oviedo (2001) che ha imposto di prendere in esame i desideri precedentemente espressi dal paziente e ha inserito questo punto all’interno del capitolo dedicato al consenso informato. Secondo la Convenzione, dunque, si tratta di rispettare le richieste del malato e di trovare il modo perché esse siano conosciute e attribuite a lui senza possibilità di errore quando non sarà più in grado di esprimerle. Si tratta, fondamentalmente, di colmare un grave vuoto di tutela e, di conseguenza, una grave mancanza di sensibilità morale, consentendo a che si trova in una grave condizione di incapacità di pretendere quegli atti che avrebbe potuto legittimamente esigere e solo fosse stato cosciente. Il documento non fa alcuna concessione alla richiesta di eutanasia, che oltretutto non è contemplata nel documento di Oviedo ed è vietata da molte leggi nazionali, e si limita a sollecitare il riconoscimento del diritto di rifiutare l’accanimento terapeutico o le cure sproporzionate o infine, nel caso dei testimoni di Geova, le trasfusioni.
Il secondo problema ha minore intensità etica ma è più complicato e più difficile da risolvere. Il testamento biologico rappresenta, nel suo complesso, un atto eterogeneo che presenta risvolti e implicazioni differenti: il malato manifesta in modo esplicito la propria volontà e al contempo attribuisce a una persona specifica poteri delicati e importanti. La prima parte può limitarsi all’espressione di un desiderio, o può entrare in una dettagliata descrizione delle proprie volontà, con un minuzioso elenco delle cure rifiutate o di quelle pretese. Queste decisioni possono prevedere l’attribuzione di uno specifico potere di decisione e di controllo a una terza persona, o non avere uno specifico destinatario, la delega può essere assolutamente priva di indirizzo. Si possono così configurare procure sanitarie senza alcuna indicazione di trattamento e indicazioni di trattamento che non si rivolgono a un procuratore specifico.
Chi pone mano alla preparazione di una legge nel nostro Paese non dovrebbe trascurare i documenti che l’ordine dei medici ha in varie occasioni approvato su questo tema o su temi consimili. Ne cito uno, che copio dal Codice di deontologia Medica del 1998: “il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità e della indipendenza professionale, alla volontà di cura liberamente espressa dalla persona e….. non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dal paziente”. Dichiarazione molto esplicita, certamente, ma che non aiuta a risolvere il nodo vero del problema, come comportarsi quando si tratta di richieste relative alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali.
Non v’è d’altra parte alcun dubbio sul fatto che il ruolo del medico viene scosso dalle fondamenta quando si trattano problemi come questo. Egli può essere uno strumento subalterno fino a mettere in crisi la propria posizione di garanzia, o accentuarla fino a tradire il proprio rapporto fiduciario con il suo paziente, correndo sempre il rischio di violare obblighi rigorosi per adempierne altri.
I pareri del Comitato Nazionale per la bioetica
Il Comitato Nazionale per la Bioetica ha tentato una via originale, cercando di garantire l’incontro tra due sensibilità, quella di chi soffre e quella di chi cura. La rilevanza giuridica del consenso informato dovrebbe consistere nella capacità di coinvolgere il medico nella condizione di sofferenza del paziente e il paziente nell’apparato tecnico del medico. Il desiderabile e il possibile si dovrebbero saldare nelle medesime scelte di vita. L’eticità del testamento biologico consiste allora nel garantire l’alleanza terapeutica tra medico e paziente proprio quando è esclusa ogni prospettiva di dialogo consentendo alla solitudine dell’incapace che non può decidere di incontrare la solitudine del medico che non sa decidere e non sa come rispettare i desideri del paziente.
Il CNB ha ritenuto che fosse possibile realizzare questo difficile incontro di sensibilità, prevedendo che le richieste contenuto nel testamento biologico siano vincolanti per il medico, che deve prenderle in esame costruendo su di esse qualsiasi progetto terapeutico ma non sufficienti a determinare un dovere assoluto, lasciando quindi al medico la possibilità di prendere decisioni diverse, purché adeguatamente motivate. Questo è comprensibile e legittimo se il medico può provare, senza possibilità di errore, che il paziente ha dettato volontà che non hanno tenuto conto o non hanno potuto tenere conto, solo per fare un esempio, del progresso delle conoscenze mediche e delle nuove soluzioni terapeutiche che, con indubbio vantaggio per lui, la medicina può offrirgli: in questo caso il medico potrebbe diventare un obiettore di conoscenza, cioè contestare la quantità di conoscenza che il malato possedeva al momento della stesura del documento e che lui considera insufficiente, inadeguata e perciò destinata a far commettere errori. Sempre secondo il CNB si tratta inoltre di creare un equilibrio tra la bioetica dei desideri e la bioetica dei valori, che può coincidere con il contenuto del documento ma può anche, in certi casi, andare oltre. Il medico capisce che il paziente non aveva una adeguata conoscenza dei problemi e che, se adeguatamente informato, avrebbe preso una differente decisione. In questo modo il testamento biologico assumerebbe una carattere che non è assolutamente vincolante ma neppure meramente orientativo e in cui l’autonomia del medico è strettamente correlata alla sua responsabilità Il medico ha quindi l’obbligo di valutare l’attualità delle richieste in base alle circostanze cliniche e allo sviluppo delle conoscenze.
La componente cattolica del Comitato, come sempre prevalente dal punto di vista numerico in misura quasi offensiva, ha ritenuto inadeguato questo primo documento e ha deciso di scriverne un secondo, dedicandolo esclusivamente al problema della alimentazione e dell’idratazione forzata. La mia opinione personale è che i membri cattolici siano stati fermamente richiesti dal Vaticano di scrivere questo secondo documento, sul quale non hanno accettato mediazioni, ma come è comprensibile non ho alcuna prova (solo certezze interiori) di quanto sto scrivendo e no ho dubbio che questa mia ipotesi verrà respinta come offensiva.
Questo documento esordisce con una descrizione dello stato vegetativo persistente che non differisce da quella che ho dato nelle pagine precedenti. Sottolinea che il problema etico è dato dalla dipendenza di queste persone da altre; dice ancora che non sono necessarie tecnologie sofisticate costose e di difficile accesso, che questi “pazienti” hanno bisogno solo di cura, intesa non solo come terapia ma soprattutto di care: essi hanno il diritto di essere accuditi, e perciò richiedono una assistenza di altissimo contenuto umano e di modesto contenuto tecnologico.
Secondo il documento non sono né le probabilità di guarigione né la qualità della patologia a giustificare la cura che trova la sua ragion d’essere nel bisogno che il malato ha, come soggetto debole, di essere accudito.
Ciò che va garantito a queste persone è il sostentamento ordinario di base, la nutrizione e l’idratazione, per via naturale o artificiale. Queste attenzioni non rappresentano né un atto medico né un possibile accanimento terapeutico Interromperle rappresenta, da un punto di vista umano e simbolico, un crudele atto di abbandono del malato.
In questa attenzione esiste dunque una valenza umana che è un segno della solidarietà nel prendersi cura del più debole: si tratta di sollecitudine per l’altro. Sospendere alimentazione e idratazione si configura come vera eutanasia omissiva, intervento illecito sia eticamente che giuridicamente. Dunque, la vita umana è un bene indisponibile, indipendentemente dalla percezione della qualità della vita, dell’autonomia e della capacità di intendere e di volere; qualsiasi distinzione tra vita degna e vita indegna di essere vissuta è arbitraria, non potendo la dignità essere attribuita in modo variabile in base alle condizioni di esistenza; l’idratazione e l’alimentazione artificiali sono sostentamento vitale di base la cui sospensione è lecita soltanto quando si configuri autentico accanimento terapeutico ed è invece illecita quando viene effettuata sulla base delle percezioni che altri hanno della qualità di vita del paziente.
Si sono dichiarati contrari a questo documento tredici membri del CNB che hanno anche firmato una postilla di dissenso, che riporto qui di seguito integralmente. La ragione di questa scelta è dovuta al fatto che le postille di dissenso, che pur dovrebbero avere peso e significato nella discussione sui temi della bioetica in quanto corrispondono al parere della componente laica del Comitato, vengono generalmente ignorate in tutte le sedi nella quali la discussione trova, in proseguo di tempo, la sua naturale collocazione.
Rammaricandosi per il fatto che non sia stato possibile perseguire fino in fondo la via della redazione di un documento unico anche se non unitario, i Proff. Mauro Barni, Luisella Battaglia, Cinzia Caporale, Isabella Maria Coghi, Lorenzo D’Avack, Renata De Benedetti Gaddini, Carlo Flamigni, Silvio Garattini, Laura Guidoni, Demetrio Neri, Alberto Piazza, Marco Lorenzo Scarpelli, Michele Schiavone, si esprimono favorevolmente rispetto all’ipotesi di sospensione dell’idratazione e della nutrizione a carico di pazienti in SVP, in determinate circostanze e con opportune garanzie. Gli stessi Professori dichiarano quindi il proprio voto contrario al Documento approvato dalla maggioranza dei Componenti del CNB, motivando tale scelta con le seguenti considerazioni.
1. Tralasciando i primi tre paragrafi del Documento che, opportunamente modificati nella discussione svoltasi nella seduta plenaria del 16 settembre, sono condivisibili in quanto descrizione del quadro clinico denominato «stato vegetativo» (par.2) e introduzione al tipo di problemi da affrontare (par.3), un primo punto di dissenso riguarda il contenuto dei paragrafi 4-5-6 e 7, in particolare relativamente alla tesi secondo cui l’alimentazione e l’idratazione artificiali non possono essere considerati trattamenti medici in senso proprio.
A tal riguardo, occorre sottolineare con forza che esiste una tendenza ormai costante, e sempre più diffusa nella comunità scientifica nazionale e internazionale, a favore della tesi inversa, ovvero che l’alimentazione e l’idratazione artificiali costituiscano a tutti gli effetti un trattamento medico, al pari di altri trattamenti di sostegno vitale, quali, ad esempio, la ventilazione meccanica. Ventilazione meccanica che viceversa il Documento ritiene inopportuno evocare come elemento di paragone: quasi che fornire meccanicamente aria a un paziente che non può assumerla da sé, non fosse altrettanto «indispensabile per garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere», quanto, secondo il Documento, lo è il fornirgli alimentazione e idratazione artificiali.
Sono, queste ultime, trattamenti che sottendono conoscenze di tipo scientifico e che soltanto i medici possono prescrivere, soltanto i medici possono mettere in atto attraverso l’introduzione di sondini o altre modalità anche più complesse, e soltanto i medici possono valutare ed eventualmente rimodulare nel loro andamento; ciò anche se la parte meramente esecutiva può essere rimessa – come peraltro accade per moltissimi altri trattamenti medici – al personale infermieristico o in generale a chi assiste il paziente. Non sono infatti «cibo e acqua» – come affermato dal Documento – a essere somministrati, ma composti chimici, soluzioni e preparati che implicano procedure tecnologiche e saperi scientifici; e le modalità di somministrazione non sono certamente equiparabili al «fornire acqua e cibo alle persone che non sono in grado di procurarselo autonomamente (bambini, malati, anziani)» (par.7). Questo linguaggio altamente evocativo ed emotivamente coinvolgente, del quale i paragrafi in esame sono intessuti, è finalizzato a sostenere la tesi del «forte significato oltre che umano, anche simbolico e sociale di sollecitudine per l’altro» (par.7) rivestito dalla somministrazione, anche per vie artificiali, di «cibo e acqua». Tuttavia, di nuovo, resta incomprensibile – nel senso che nel Documento non viene fornita alcuna motivazione in proposito – perché nello stesso contesto si sostenga che «tale valenza non riguarda ad esempio la respirazione artificiale o la dialisi». In un’etica dell’aver cura non può essere discriminante la natura più o meno tecnologica dei trattamenti: qualunque trattamento medico o non medico, anche il più banale, può e dovrebbe rivestire la valenza della sollecitudine per l’altro.
2. In ogni caso, pur tenendo fermo che se si ragiona sulla natura di questo o quel trattamento non si possono ignorare i pareri delle società scientifiche, chi sottoscrive questa nota integrativa al Documento sottolinea che il giudizio sull’appropriatezza bioetica di tali trattamenti dipende soltanto in parte – o persino affatto, come sostengono alcuni tra gli scriventi – dalla loro catalogazione come trattamenti medici, come del resto in una certa misura ammette lo stesso Documento nella frase che chiude il par. 4.
Potrebbe forse dipendere da tale catalogazione la soluzione di problemi medico-legali e deontologici, ma non ne dipende certo, e comunque non automaticamente, il giudizio di appropriatezza bioetica, il quale – esattamente come nel caso di qualunque altro trattamento – deve prendere in considerazione altri fattori. Tra questi: la condizione in cui versa il paziente e la concezione della propria vita che il paziente stesso può aver manifestato, in varie forme, prima dell’ingresso in SVP.
Non si tratta di formulare giudizi o di ammettere «giudizi di altri» – come paventato dal Documento – sulla «qualità della vita attuale e/o futura» di questi pazienti, ma, al contrario, di esplorare la possibilità di ricostruire il giudizio che il paziente stesso avrebbe formulato circa la propria condizione, oppure di verificare quali preferenze il paziente stesso abbia esplicitamente e chiaramente espresso sotto forma di direttive anticipate. Le due diverse strade si aprono a seconda del principio bioetico cui si fa riferimento: in Gran Bretagna, ad esempio, si punta in genere a stabilire se la permanenza in quella condizione sia nel «miglior interesse» del paziente; mentre negli USA viene considerato prevalente l’interesse del rispetto dell’autonomia del paziente, anche nel caso in cui egli non possa più esercitarla in modo attuale. Queste e altre possibili vie possono essere seguite per trovare soluzioni umanamente accettabili a queste drammatiche situazioni. I firmatari della presente nota integrativa si augurano che il CNB riesamini la tematica, la cui analisi è già iniziata nel precedente mandato, trattandosi di questioni che richiedono ben altro approfondimento.
3. Si deve inoltre osservare – con particolare riferimento ai paragrafi 5 e 6 – che l’idratazione e l’alimentazione artificiali non possono quasi mai trasformarsi in una forma di accanimento terapeutico (sebbene possano diventare accanimento puro e semplice), neppure nei casi, rari ma ipotizzabili, di cui al par.6.
Rispetto a questo paragrafo, c’è però da rilevare che non è realistico, né scientificamente adeguato, parlare di un organismo che «non è più» in grado di assimilare le sostanze fornite (in questo caso il trattamento diverrebbe tra l’altro del tutto futile). È viceversa realistico parlare di un organismo che presenta una sempre più ridotta capacità di assimilazione senza che sia possibile in astratto indicare la soglia al di sotto della quale la capacità di assimilazione diventa insufficiente e, quindi, i nutrienti artificialmente somministrati non raggiungono più il loro scopo biologico di modificare, sia pure in misura sempre più limitata, i parametri bio-umorali.
Non si comprende quindi per quale ragione la sospensione di tali trattamenti nel caso di pazienti in SVP – che in ogni caso non hanno consapevolezza del fatto di essere nutriti e idratati – costituirebbe «una forma, da un punto di vista umano e simbolico particolarmente crudele, di «abbandono» del malato» (che, secondo il Documento approvato, esigerebbe, in chi la proponesse, la coerenza di richiedere anche la soppressione eutanasica di questi pazienti), mentre tale «abbandono», secondo lo stesso Documento, non si verificherebbe nel caso di pazienti con ridotta o ridottissima (ma presumibilmente mai nulla, almeno finché i pazienti sono in vita) capacità di assimilazione, per i quali il Documento prospetta addirittura la «doverosità» della sospensione. E neppure si comprende perché la difficoltà psicologica e umana di lasciar «morire di fame e di sete» un paziente, venga fatta valere nel caso dei pazienti in SVP e non anche nel caso di altro tipo di pazienti gravi con altrettanto ridotta capacità di assimilazione: conta forse il fatto che nel primo caso il processo del morire potrebbe protrarsi anche per due settimane, mentre nel secondo caso «solo» per pochi giorni o poche ore?
Lasciando da parte il fatto che quel che accade nella realtà non è certo riconducibile alle immagini strazianti che il linguaggio usato nel Documento indurrebbe a pensare, se il problema è costituito dal disagio psicologico e umano di chi ha in cura i pazienti (sempre che ciò costituisca un valido motivo), allora – una volta decisa la sospensione di quei trattamenti – in fase terminale si potrebbe procedere nell’uno come nell’altro caso, alla sedazione; nel secondo caso ovviamente col consenso del paziente, se consapevole.
Non c’è quindi alcun bisogno di chiamare in causa il tema dell’eutanasia attiva: nel panorama del dibattito etico in materia è possibile argomentare a favore dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale (ivi comprese l’idratazione e l’alimentazione artificiale) senza dover per ciò stesso accettare l’ipotesi dell’intervento eutanasico diretto.
4. Un ulteriore punto di dissenso riguarda il contenuto del par.8, relativamente alla possibilità di inserire la richiesta di non inizio o sospensione dell’idratazione e alimentazione artificiali nella redazione delle Dichiarazioni anticipate di trattamento.
Il Documento Dichiarazioni anticipate di trattamento, approvato all’unanimità dal CNB il 18 dicembre 2003, recita testualmente: «Ogni persona ha il diritto di esprimere i propri desideri anche in modo anticipato in relazione a tutti i trattamenti terapeutici e a tutti gli interventi medici circa i quali può lecitamente esprimere la propria volontà attuale». A giudizio degli scriventi da questa formulazione discende per logica conseguenza che qualunque trattamento o intervento rientra nella disponibilità della persona, indipendentemente dal fatto che sia ordinario o straordinario, che dia luogo o meno ad accanimento terapeutico, oppure – e a maggior ragione, costituendo l’alimentazione artificiale un intervento la cui cessazione comporta degli effetti perfettamente comprensibili dal paziente senza alcuna necessità di particolari informazioni o nozioni – che sia «ordinaria assistenza di base». Non si vede, infatti, come sia possibile argomentare che una persona consapevole, che rifiutasse uno qualunque di questi interventi, possa essere costretta a subirne la somministrazione. E in relazione al tema in discussione, conviene anche ricordare che l’art. 51 del Codice italiano di deontologia medica recita: «Quando una persona, sana di mente, rifiuta volontariamente e consapevolmente di nutrirsi, il medico ha il dovere di informarla sulle conseguenze che tale decisione può comportare sulle sue condizioni di salute. Se la persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale, ma deve continuare ad assisterla» (corsivi degli scriventi).
Se dunque una persona, nella piena consapevolezza della sua condizione e delle conseguenze del suo eventuale rifiuto, è libera di decidere su qualunque intervento gli venga proposto, ivi compresa la nutrizione artificiale, allora, in forza del principio sopra ricordato, non è possibile sottrarre alla medesima persona la libertà di dare disposizioni anticipate di analoga estensione, e quindi anche circa l’attivazione o non attivazione dell’idratazione e alimentazione artificiali, nel caso in cui si venisse a trovare nella condizione che, in base alle conoscenze mediche e ai protocolli disponibili, fosse diagnosticata come stato vegetativo.
5. Quanto alle considerazioni conclusive esposte nel par. 9, esse ovviamente discendono dal contenuto dei paragrafi precedenti e non sono quindi accettabili per coloro che sottoscrivono questa nota integrativa al Documento.
In conclusione appare tuttavia doveroso osservare che per ragionare bioeticamente sul caso dello SVP non è strettamente necessario chiamare in causa la controversia sul valore della vita umana, anche perché così facendo la discussione si sposta sul livello delle più complessive e, spesso, incomponibili concezioni del mondo e dell’uomo, sulle quali non dovrebbe essere compito del CNB prendere posizione. Si potrebbe semmai provare a ragionare sull’oggetto della controversia, chiedendosi, ad esempio, se l’indisponibilità o la disponibilità vada riferita alla vita come mera esistenza biologica o alla vita come biografia, all’essere vivi o all’avere una vita, un’esistenza.
Infine, non pare agli scriventi che sia il caso di richiamare la distinzione tra vite degne o non degne di essere vissute, poiché è sempre vero che la dignità delle persone non dipende dalle condizioni in cui le persone si trovano: possono invece essere le condizioni in cui le persone si trovano a essere più o meno degne delle persone. E, in questo caso, è convinzione degli scriventi – per alcuni subordinando sempre tale decisione al consenso esplicitamente espresso dal paziente in un momento precedente –, che è semmai da considerare come un estremo omaggio alla dignità della persona interrompere i trattamenti che mantengono tali condizioni non degne.”
Alimentazione e idratazione artificiali
Nel 1595, Un teologo di nome Domingo Banez introdusse una distinzione tra mezzi di cura ordinari e mezzi di cura straordinari, distinzione basata sulla sofferenza: la gangrena di un arto doveva essere trattata con l’amputazione, eseguita in assenza di anestesia e di antidolorifici e con minime probabilità di sopravvivenza, un trattamento certamente straordinario che il buon senso induceva a evitare. Questa distinzione è stata sostituita da quella più moderna tra mezzi proporzionati e mezzi sproporzionati, recepita nel 1980 nella dichiarazione sull’eutanasia della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede. Ciò non ha però cancellato l’accanimento terapeutico ed esistono teorie morali che sostengono che trattamenti come l’alimentazione e l’idratazione artificiale sono sempre dovuti e quindi obbligatori. La Dichiarazione li definisce “cure normali” anche se poi nella Carta per operatori sanitari ( che è del 1994) si aggiunge “ quando non divengano gravosi per il malato”. Ma quando mai si può verificare un evento del genere?
Secondo il Magistero cattolico dunque il cosiddetto sostentamento ordinario di base, la nutrizione e l’idratazione, per via naturale o artificiale, non rappresentano né un atto medico né un possibile accanimento terapeutico e interromperle rappresenta, da un punto di vista umano e simbolico, un crudele atto di abbandono del malato.
In questa attenzione esisterebbe una valenza umana che secondo le intenzioni dovrebbe essere un segno della solidarietà nel prendersi cura del più debole. Sospendere alimentazione e idratazione si configurerebbe come vera eutanasia omissiva, intervento illecito sia eticamente che giuridicamente. Dunque, anche in queste condizioni la vita umana, la vita biologica del’uomo, è un bene indisponibile, anche in assenza totale e definitiva di ogni capacità cognitiva; l’idratazione e l’alimentazione artificiali sono sostentamento vitale di base la cui sospensione è lecita soltanto quando si configuri autentico accanimento terapeutico (cioè, in pratica, mai).
A tal riguardo, occorre sottolineare con forza che esiste una tendenza ormai costante, e sempre più diffusa nella comunità scientifica nazionale e internazionale, a favore della tesi inversa, ovvero che l’alimentazione e l’idratazione artificiali costituiscano a tutti gli effetti un trattamento medico, al pari di altri trattamenti di sostegno vitale, quali, ad esempio, la ventilazione meccanica. Ecco, ad esempio, quello che scrive la Società Italiana di nutrizione parenterale: La miscela nutrizionale è da ritenere un preparato farmaceutico che deve essere richiesto con una ricetta medica e deve essere considerato una preparazione galenica magistrale, non essendo un prodotto preconfezionato in commercio. Si tratta comunque di un trattamento medico a tutti gli effetti tanto che prevede il consenso informato del malato o del suo delegato, secondo le norme del codice deontologico e che deve essere considerato un trattamento sostitutivo vicariante.
Ed ecco alcune “ Precisazioni in merito delle implicazioni bioetiche della nutrizione artificiale elaborate dal Consiglio Direttivo e dalla Commissione di Bioetica della Società Italiana di Nutrizione Parenterale ed Enterale, gennaio 2007): ” La Nutrizione Artificiale è un trattamento medico. La NA è da considerarsi, a tutti gli effetti, un trattamento medico fornito a scopo terapeutico o preventivo. La NA non è una misura ordinaria di assistenza (come lavare o imboccare un malato autosufficiente). Come tutti i trattamenti medici la NA ha indicazioni, controindicazioni ed effetti indesiderati. L’attuazione della NA prevede il consenso informato del malato o del suo delegato, secondo le norme del codice deontologico”. Secondo lo stesso documento, la NA si configura come un trattamento sostitutivo, come la ventilazione meccanica e l’emodialisi, cioè come un trattamento che tende a sostituire in modo temporaneo o permanente il deficit di un organo di un apparato: in tal senso la NA si sostituisce al deficit di una funzione complessa come quella dell’alimentazione naturale, quando questa è compromessa, in tutto o in parte da una sottostante condizione patologica. Nei casi di stato vegetativo la decisione di instaurare, continuare e sospendere determinati trattamenti sostitutivi (non solo la NA, ma anche la ventilazione assistita, implica una problematica più complessa da affrontare caso per caso con il contributo dei medici specialisti, dei care-giver e dell’assistente familiare. In ogni caso il documento ricorda quanto affermato dal CNB nelle Direttive anticipate di trattamento: “che la legge obblighi il medico a prendere in considerazione dichiarazioni anticipate , escludendone espressamente il carattere vincolante ma imponendogli, sia che lo attui sia che non lo attui, di esplicitare formalmente e adeguatamente in cartella clinica le ragioni delle sue decisioni.. E’ infine opportuno ricordare che il documento si conclude chiedendo, anche per la NA, la piena applicazione della Convenzione di Oviedo. Questo è il “consenso” degli esperti, e non tenerne conto, preferirgli le conclusioni alle quali sono giunte persone che parlano esclusivamente in nome della loro personalissima fede, deve essere interpretato come un grave atto di violenza e di prevaricazione.
Si tratta dunque di trattamenti che sottendono conoscenze di tipo scientifico e che soltanto i medici possono prescrivere, soltanto i medici possono mettere in atto attraverso l’introduzione di sondini o altre modalità anche più complesse, e soltanto i medici possono valutare ed eventualmente rimodulare nel loro andamento; ciò anche se la parte meramente esecutiva può essere rimessa – come peraltro accade per moltissimi altri trattamenti medici – al personale infermieristico o in generale a chi assiste il paziente. Non sono infatti «cibo e acqua» – come affermato dalla maggior parte dei bioeticisti cattolici – a essere somministrati, ma composti chimici, soluzioni e preparati che implicano procedure tecnologiche e saperi scientifici; e le modalità di somministrazione non sono certamente equiparabili al «fornire acqua e cibo alle persone che non sono in grado di procurarselo autonomamente (bambini, malati, anziani)» . Questo linguaggio altamente evocativo ed emotivamente coinvolgente, del quale i documenti dei bioeticisti cattolici sono intessuti, è finalizzato a sostenere la tesi del «forte significato oltre che umano, anche simbolico e sociale di sollecitudine per l’altro» rivestito dalla somministrazione, anche per vie artificiali, di «cibo e acqua». In uno dei numerosi articoli scritti su l’Avvenire Francesco D’Agostino, dopo aver ribadito che la nutrizione artificiale è “atto essenziale, umanissimo, di prossimità umana, portatore di un valore simbolico altissimo” ha sostenuto che far morire di inedia è intuitivamente atroce non perché il malato soffra, ma per la valenza di freddo distacco da lui che è implicita nella sospensione delle cure. Gli ha risposto Carlo Alberto Defanti su Bioetica (aprile 2008) chiedendosi se D’Agostino sa quanto è difficile per un medico prendere una tale decisione, una difficoltà psicologica che ha tutt’altra valenza del “freddo distacco” del quale parla il bioeticista cattolico.
Gli stranieri morali
A creare stranieri morali sono soprattutto le religioni, le stesse religioni che negano che stranieri morali possano esistere. In realtà, credere in dio, in un qualsiasi dio, e persino aspirare a credere in un qualsiasi dio, crea inevitabilmente stranieri morali. E la cosa più peculiare e divertente è che le religioni, per evitare di dover accettare questa sin troppo evidente separazione, hanno fatto la scelta di considerare la loro l’unica morale esistente e possibile, ignorando, denigrando o insultando la morale degli altri. Ma i laici sono abituati a sentirsi chiamare persone che sbagliano, o infedeli, o a sentir definire debole il loro pensiero, e hanno persino smesso di chiedersi come si possa considerare forte il pensiero di chi, per tutto allenamento, si è abituato a credere nelle verità rivelate. In realtà posso immaginare la convivenza, nella stessa società, di persone che credono nel dio della bibbia o del corano, di persone che credono in una divinità diversa da queste, di uomini che non credono e di uomini che vorrebbero credere. Mi pare però premessa fondamentale a questa convivenza il fatto che tutte queste convinzioni siano ugualmente rispettate. Altrettanto importante è che lo stato si limiti a questo rispetto, e non conceda mai privilegi a questa o a quella ideologia. Abbagnano definiva immorale un governo che sceglieva la strada del privilegio.
Esistenza e vita
Scrive Giovanni Boniolo nel libro che ha recentemente curato sulla laicità e che è stato pubblicato da Einaudi che è necessario distinguere vita da esistenza e inizio e fine della vita da inizio e fine dell’esistenza. Cambiano evidentemente i livelli di analisi: descrittivo quello che riguarda la vita, assiologico quello che concerne l’esistenza.
Nel mio mestiere si dà un grande rilievo alle definizioni, così che dovrò tentarne anche a proposito dei termini che ho appena utilizzato. Allora una cosa è vivente se è caratterizzata da processi biochimici di natura metabolica che attraverso l’utilizzazione di energia esterna permettano la costruzione, il mantenimento e, un grande numero di casi, la distruzione della sua struttura fisica e che ne condizionano il comportamento.
L’esistenza indica invece l’intera vita di una specie biologica, o un periodo di questa vita, o la vita di un membro di questa specie, cui è stato attribuito valore.
Il quesito fondamentale, la domanda che prima o poi tutti gli uomini si pongono, è a chi appartiene la vita e a chi appartiene l’esistenza. Se si tiene conto delle definizioni che ho azzardato, la vita non è di nessuno; stabilire a chi appartenga l’esistenza dipende dal punto di vista da cui le si attribuisce valore. Ci sono vite cui non attribuiamo il valore di esistenza e non ci interessa il loro destino. Ci sono vite alle quali attribuiamo valore ed è a seconda della quantità di questo valore che ci preoccupiamo del loro destino.
Personalmente, da uomo laico, sono soprattutto interessato alla possibilità di essere libero di esistere, perché da questa discendono altre libertà, come quella di scegliere la mia morte, cioè la fine della mia esistenza, cioè ancora la fine della mia vita. Certamente questo non può essere casuale: il problema fondamentale nella vita di un uomo laico è comunque e sempre la libertà: in fondo la laicità rappresenta l’atteggiamento intellettuale di chi considera primaria la libertà di coscienza, intesa come libertà di credenza, conoscenza, critica e autocritica.
Dunque, il quesito fondamentale resta sempre lo stesso, a chi appartiene la nostra esistenza, domanda certamente non oziosa, che chiama subito in causa il problema della religione, un problema destinato inevitabilmente a dividerci. Se l’esistenza è nostra, se è nostra la nostra vita, abbiamo il diritto di farne ciò che vogliamo, indipendentemente da quanto pensano gli altri e nei limiti che ci sono imposti dal fatto di vivere in una comunità e di aver potuto contrarre debiti con gli altri. Se la vita non è nostra, se ci è stata donata, se dobbiamo comunque risponderne a qualcuno, allora le regole alle quali siamo tenuti ad attenerci sono evidentemente diverse. Siamo di nuovo di fronte a definizioni differenti: la morte è la fine della vita o è invece in modo più complesso un passaggio? Perché se non ci sono traghettatori coi quali trovare un accordo, questo problema me lo sbrigo io, è un fatto squisitamente personale.
Da questo primo quesito ne discende immediatamente un secondo: cosa è la cosa più importante della nostra esistenza, quella alla quale attribuiamo il maggior valore? E’ la vita in sé, perché sacra e inviolabile e dobbiamo perciò rispettarla e accettarla comunque sia, qualsiasi cosa ci faccia, senza neppure poter ritenerla responsabile delle nostre sofferenze? O possiamo apprezzarla diversamente, valutandola e giudicandola proprio in rapporto a quanto ci concede? E cosa ci aspettiamo da lei per poter assegnarle un valore? Dignità? Qualità? E’ una scelta difficile, che in alcune circostanza può divenire drammatica. La vita di un bambino nato con una malattia che altro non gli concede e altro non gli concederà se non sofferenza, vale la pena di essere vissuta? Nelle stesse condizioni, la mia vita, alla quale la malattia può aver tolto tutta la dignità di cui disponeva, vale la pena di essere continuata? E questo merita una doppia precisazione: la prima che la misura della dignità compatibile con l’esistenza è assolutamente soggettiva; la seconda che è molto più difficile intervenire sulla perdita di dignità che su quella del benessere fisico.
Secondo me bisognerebbe rispondere no a entrambe queste domande, ma è ovvio che si tratta di un giudizio personale. So bene che le risposte possono essere del tutto diverse dalla mia: questo accade perché su questo e su molti altri temi ci comportiamo come stranieri morali.
Esiste su questi temi un conflitto aperto e i valori che si confrontano sono sin troppo evidentemente inconciliabili: il valore della vita umana, nell’accezione nella quale essa risulta indisponibile anche al suo titolare, e il valore dell’autonomia della persona, cui sono legati la libertà di poter autonomamente disporre del proprio corpo e il diritto di governarsi da sé nella sfera delle scelte personali. Entrambi i valori sono stati eretti a principi morali definiti, in questo contesto, come “criteri di giustificazione delle credenze morali”. Ogni principio consiste in una affermazione generale su ciò che ha valore e su ciò che si deve fare e può scaturire da una teoria morale di riferimento, nel senso di rappresentare i cardini in base ai quali una certa teoria morale viene costruita, oppure riassumere una gamma di principi o di preoccupazioni morali, oppure ancora indicare radici differenti per la giustificazione delle preoccupazioni morali nel campo dell’assistenza sanitaria.
Secondo il principio della inviolabilità della vita il valore della vita umana è assoluto e speciale in sé, indipendentemente dalla sua qualità e dalla possibilità di poterla apprezzare, e senza dare alcun peso ai desideri delle persone viventi. La versione religiosa di questo principio pone la questione in termini di sacralità, dal concepimento alla sua fine naturale (e qui cosa significhi naturale alla luce dei progressi della medicina è tutto da stabilire). La vita dell’uomo è sacra in quanto egli è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio, quindi possiede una propria irriducibile dignità, che conferisce un senso intrinseco alla vita e le dona una specifica sacralità. Questa dignità diventa un carico da portare per sempre, un fardello da sommare alle piaghe da decubito, al vomito e alla diarrea indotti dalla chemioterapia, alla paralisi di un corpo ridotto a brandelli e di una mente devastata dal dolore, ai clisteri, ai sondini, ai cateteri, mi sembra che al confronto impallidisca l’immagine delle celle nelle quali i tedeschi torturavano i patrioti. Comunque alla percezione soggettiva che ognuno ha della sua dignità personale non viene dato alcun peso.
La vita umana è inviolabile, dio ne è l’unico signore, l’uomo non può disporne e tutto ciò è legato al principio dell’assoluto, i valori assoluti, i principi assoluti, i divieti assoluti, che non ammette eccezioni. In realtà se questi principi si svincolano dalla dimensione religiosa e vengono considerati solo nella loro dimensione razionale diventano molto incerti e, diciamolo, poco credibili. Solo i dogmi fideistici rendono accettabile questa visione del mondo: verrebbe da dire, ascoltando il buon senso, che la sacralità della vita dovrebbe essere interpretata come protezione della vita in senso biografico e non come tutela della sopravvivenza biologica. Per molti di noi essere vivi ha importanza solo se costituisce la possibilità di avere una vita, in assenza di una vita cosciente è indifferente vivere o morire.
Dal punto di vista filosofico, la posizione di quanti sostengono l’obbligatorietà del trattamento medico di sostegno si rifà al vitalismo medico, che ha assunto valenza medica a partire dal 700 con il pensiero di Sthal, professore nell’Università di Halle. Il vitalismo pone il mantenimento della vita umana come obiettivo primario e prioritario dell’intervento del medico. Nella metà del secolo scorso il vitalismo divenne il paradigma guida della maggior parte dei medici italiani, impegnati nella conservazione del flusso vitale, della vita che attraversa il paziente, di cui le malattie erano le manifestazioni. L’acerrima nemica è dunque la morte, la vita è considerata in senso astratto, indipendentemente dalla peculiarità delle sue manifestazioni. Il vitalismo non ha in cura le persone, ha in cura la vita umana in sé.
Al polo opposto, il principio morale di riferimento è quello di autonomia o di autodeterminazione del paziente, la capacità di scegliere razionalmente la propria condotta, di imporre un certo corso alle proprie azioni e ai propri desideri, dei propri sentimenti e delle proprie inclinazioni, attraverso un volere capace di indirizzarli alla luce di una visione ideale di sé, alla ricerca di quella particolare identità che ognuno di noi desidera realizzare.
Nel Manifesto di bioetica laica, alla cui stesura ho collaborato più di dieci anni or sono insieme a Massarenti, Mori e Petroni, si può leggere: “ogni individuo ha pari dignità e non debbono esistere autorità superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui nelle questioni che riguardano la sua salute e la sua vita”. Dunque l’autonomia è il punto centrale della riflessione bioetica sull’uomo, il principio che ispira e legittima il consenso informato: è da questo principio che nasce la richiesta ai medici di considerare sempre prioritarie le richieste dei loro malati, è questo principio che deve essere considerato guida e cardine della riflessione bioetica sull’uomo, anche perché è quello che ispira e legittima il consenso informato.
Secondo questo principio il valore delle scelte personali ha la sua valenza morale indipendentemente dai contenuti “nei limiti in cui le scelte derivano dall’autonoma deliberazione e decisione degli individui. Le singole credenze sono giustificate nei limiti in cui sono ricondotte a un principio morale di fondo”(Lecaldano).
Anton Leist definisce in modo diverso l’autonomia come diritto alla libertà sociale e l’autonomia come valore di realizzazione. La prima innesca meccanismi di tutela e impone il rispetto delle scelte altrui come vincolo nelle relazioni sociali; la seconda è il pilastro su cui fondare il senso della propria vita. L’unica limitazione è quella di riservare pari diritto agli altri L’autonomia è un valore in sé indipendentemente da ogni altro bene che procura e una scelta personale non può essere subordinata e delusa per nessuna altra motivazione che agli occhi altrui appaia moralmente più rilevante In questo modo si accetta il dominio dell’uomo sulla propria vita.
La laicità
In termini culturali, la laicità non dovrebbe essere considerata una ideologia e non
dovrebbe essere giudicata usando lo stesso metro che si usa, appunto, per le ideologie. La laicità è invece un metodo, utilizzabile per mediare tra le ideologie, ma anche per smascherarle. Cito, a questo proposito, una definizione di Guido Calogero: la laicità non è una filosofia né una ideologia politica, ma è piuttosto il metodo di convivenza di tutte le filosofie e le ideologie possibili: il principio fondamentale della laicità consiste nella convinzione – che deve essere applicata come regola – di non poter pretendere di possedere la verità più di quanto ogni altro possa pretendere di possederla.
Del resto, gli sviluppi attuali del pensiero laico lo hanno completamente affrancato dalle tendenze
anticlericali e antireligiose che lo hanno caratterizzato nell’800, soprattutto nei paesi latini. Ciò è potuto accadere dal momento in cui le religioni non sono più state così forti da sopraffare l’inclinazione politica, un evento che ha consentito la nascita di una attitudine alla tolleranza di pensiero. E’ evidentemente un processo in evoluzione, visto che ancor oggi i grandi valori del pensiero cristiano sembrano legati più a una professione di fede che a una cultura comune, indipendente da principi dogmatici. Ciò significa che i laici sono ancora costretti ad affrontare questioni di principio, (ad esempio, il fatto che l’etica possa avere soltanto un fondamento religioso) una discussione molto difficile, considerato il fatto che la laicità non può essere
oggetto di una predicazione ma può solo impregnare una sofferta cultura.
Penso così che almeno una delle dichiarazioni di Nicola Abbagnano sulla laicità debba essere
considerata più una speranza che una lettura dell’esistente. Dice Abbagnano: la laicità va considerata come autonomia reciproca non solo tra il pensiero politico e il pensiero religioso, ma tra tutte le attività umane, che debbono essere subordinate le une alle altre in un rapporto di dipendenza gerarchica né possono essere assoggettate a fini o a interessi che sono ad esse estranei, ma debbono autonomamente svolgersi secondo le proprie finalità e secondo regole interne.
Anche la definizione “in positivo” dello stato laico non è difficile e non offende le orecchie di
nessuno: lo stato laico è un sistema di governo politico e amministrativo della cosa pubblica che esige l’autonomia delle istituzioni pubbliche e della società civile dalle ingerenze di qualsivoglia organizzazione confessionale e dalle direttive di tutti i poteri che si sono costituiti senza far ricorso alle regole imposte dalla democrazia. Ciò significa, per parlare del nostro paese, separazione tra Stato e Chiesa, nessuna ingerenza da parte del magistero ecclesiastico, garanzia piena di libertà per tutti i cittadini nei confronti di entrambi i poteri.
Lo stato laico garantisce a tutti libertà di religione e di culto, ma assegna alle confessioni religiose la sola possibilità di esercitare una influenza politica in rapporto alla rilevanza sociale acquisita, considerando in linea di principio tutte le religioni su un piano di uguale libertà, senza mai istituire, nei loro confronti, né un sistema di privilegi né un sistema di controlli.
E’ inoltre compito dello stato laico tutelare l’autonomia delle religioni rispetto al potere temporale, che non può imporre ai cittadini professioni di ortodossia confessionale. Ciò significa, più semplicemente, che lo stato laico è incompatibile con qualsiasi regime che imponga una religione o una irreligione di stato. Ho sotto gli occhi uno scritto di Jemolo che, nel 1956, affermava principi assolutamente attuali: i laici credenti possono osservare, nelle piccole e nelle grandi cose, tutti i precetti della Chiesa, ma hanno accettato una premessa: che quei precetti non potranno avere altra sanzione che quella ecclesiastica; che mai si potrà pretendere dallo Stato un qualsiasi appoggio a quelle prescrizioni; che la legge dello stato dovrà potersi imporre a tutti, credenti e non credenti, senza offendere i sentimenti né degli uni né degli altri.
Mi piace sottolineare il fatto che Jemolo si rivolge ai laici credenti, che sono numerosi e che sanno
distinguere tra i loro differenti doveri. Molti di essi, quando discutono di laicità, mi citano la teoria delle due spade (che non possono essere impugnate dalla stessa mano) che risale al Pontefice Gelasio II e al 400, un’epoca nella quale Chiesa e Stato venivano considerati come aspetti diversi di una universale civiltà cristiana. In realtà sono convinto che Gelasio cercasse di sottrarre gli ecclesiastici al giudizio dei tribunali civili e credo poco in una laicità medievale ante litteram. Preferisco immaginare un pensiero religioso laico basato sulla modernità e quindi consapevole di quella che rappresenta la caratteristica fondamentale della società di oggi, il rapido, inarrestabile cambiamento, che non può essere né compreso né in alcun modo controllato da un canone etico a vocazione universale e che tende a rifiutare di sottoporsi a regole dettate dalle più antiche
forme di morale religiosa, certamente troppo lente, ossificate, dogmatiche e diffidenti per potersi districare tra le molte offerte che la scienza sta ponendo ai piedi della società degli uomini.
La legge
Il Senato della Repubblica ha recentemente approvato il cosiddetto ddl Calabrò sul testamento biologico con 150 voti favorevoli, 123 contrari e 3 astenuti. Vale la pena commentarne alcune parti
Degno di rilievo è l’articolo 1, nel quale si afferma che “La presente legge…. riconosce e tutela la vita umana quale diritto inviolabile e indisponibile, garantito anche nella fase terminale dell’esistenza e nell’ipogei in cui una persona non sia più in grado di intendere e di volere, fino alla morte accertata nei termini di legge”.
In linea di principio si considerano indisponibili i diritti sui quali lo stato ritiene di doversi assicurare una priorità, ed è molto difficile immaginare quale possa essere la priorità di uno stato sulla vita biologica di un cittadino, l’unica che resta nella maggior parte dei casi di stato vegetativo. Nessuna nazione ha mai elaborato elenchi di diritti indisponibili, essendo ben noto a tutti come in questo campo le elaborazioni del pensiero filosofico e sociale apportino continui mutamenti; nel nostro Paese, poi, esiste per tutti i cittadini la garanzia delle dettato costituzionale che stabilisce che non sono consentite cure che il cittadino cosciente e consapevole decide di rifiutare. Questa parte della legge, in altri termini, afferma molto semplicemente che o si è coscienti, e allora la vita è disponibile ed è affidata alla libera scelta di chi né titolari, o si è incoscienti, nel qual caso, anche dopo diagnosi di irreversibilità della condizione, lo stato decide di non credere alle disposizioni lasciate dal cittadino prima di perdere consapevolezza e si assume con molta arroganza il diritto di decidere per lui, sull’unica base di un principio religioso, oltretutto non condiviso eppure all’interno della religione che lo ha espresso. In qualche modo sarebbe come dire che da domani, con una disposizione di legge, lo stato decide di non riconoscere più le disposizioni testamentarie e do assumersi l’onere di decidere a che assegnare i beni del defunto ( deviandone ad esempio una cospicua fetta nelle casse del Vaticano). Nello stesso articolo c’è un buffo riferimento agli articoli 2,13 e 32 della Costituzione, che sono gli stessi ai quali si ispirano tutti coloro che sono contrari a questa stesura e la ritengono anti-costituzionale.
Nel secondo comma, l’articolo 1 continua così: “riconosce e garantisce la dignità di ogni persona in via prioritaria rispetto alla società e alle applicazioni della tecnologia e della scienza”. Penso che qui stia il bandolo della matassa: l’indisponibilità di cui sopra, non ha nemmeno a che fare con le esigenze dello stato, ma con il principio della dignità personale. Se ricordate quanto ho scritto a questo proposito, si tratta di un principio che ha due interpreazioni: quella cattolica, che vede la dignità del’uomo come qualcosa che gli è imposto dalla sua natura di essere creato da dio e che si riflette di necessità, per la sua somiglianza con il creatore, sulla sua esistenza e (persino) sulla sua vita biologica, considerate sacre e pertanto indisponibili: Per un laico e per la maggior parte delle persone non religiose la dignità viene costruita personalmente da ogni soggetto umano vivente attraverso la sua ricerca del significato dell’esistenza e trova il suo fondamento nella libertà: nessuno può insegnare a un laico il significato di queste parole e l’intrusione dello stato e delle sue leggi deve essere considerata come una violenza odiosa e inaccettabile. Questa indisponibilità ha dunque un interesse esclusivamente religioso, è un punto fisso – o, se volete, una fissazione – di alcuni bioeticisti cattolici e compare spesso associato al concetto secondo il quale ogni esercizio della propria libertà che porti alla negazione dell’identità personale è illegittimo e dimostra povertà umana ed esistenziale. .Secondo me, si tratta di sofismi, oltretutto irrispettosi e crudeli: la scelta del modo di morire e del momento per andarsene ha a che fare con la dignità di ciascuno di noi, e rappresenta un valore assoluto e una ricchezza umana ed esistenziale irrinunciabile . Oltretutto il concetto di dignità applicato alla propria morte dipende grandemente da come abbiamo interpretato e realizzato la dignità della nostra esistenza , è una sorta di cenestesi dello spirito che indica una dignità morale che ha diritto al massimo rispetto da parte di tutti, legislatori compresi
Il punto chiave di tutto il documento lo si trova poi all’articolo 3, nel quale si recita:” … l’alimentazione l’idratazione, nella misura in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento. “. Per sostenere questa dichiarazione, che come ho molte volte detto è in aperto contrasto con tutte le conclusioni alle quali sono giunte le varie Società scientifiche che hanno interessi specifici su questi temi, viene chiamata in causa la Convenzione delle nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità approvata a New York nel dicembre del 2006. In realtà la convenzione dice cosa del tutto diversa, in quanto sollecita i vari Sistemi Sanitari Nazionali a creare condizioni che impediscano trattamenti discriminanti nei confronti dei soggetti disabili, una richiesta logica e incontrovertibile. Da sottolineare, oltre alla tendenza degli estensori di questa nuova normativa ad affermare cose diverse da vero (a mentire?), anche l’equiparazione dei soggetti in stato vegetativo ai diversamente abili, che equivale alla proposta di un neologismo ( per nulla abili) che non era mai stato tentato in precedenza.
Ultimo dato di rilievo che riguarda la legge è l’approvazione, al’ultimo momento, di un emendamento dell’UDC che stabilisce che la volontà del paziente in merito ai trattamenti da ricevere non è vincolante per il medico. Naturalmente, dopo aver approvato questo emendamento, buon senso avrebbe voluto che i senatori buttassero nel cestino tutta le legge, che non ha più alcun significato, è solo carta straccia.
L’arroganza
Ho scelto la parola meno offensiva tra quelle che mi sono venute in mente pensando ai parlamentari della maggioranza favorevole al ddl Calabrò che ho incontrato, con i quali ho discusso e dei quali ho potuto leggere le opinioni. L’arroganza rende solo parzialmente giustizia a molti sentimenti che ho provato: ascoltando forsennati che urlavano “pane e acqua, pane e acqua” sui banchi del Senato; verificando con sgomento come sia semplice e indolore passare da convinzioni radicali e fondamentalmente atee a un pietismo che nemmeno i seguaci di padre Pio sono mai riusciti a esprimere, e tutto ciò in assenza di crisi mistiche giustificanti, solo per essere stati eletti in un certo partito; aver subito l’aggressione di velenose arpie che, prive di una qualsiasi nuance di cultura biologica, mi hanno comunque voluto insegnare, strillando come forsennate, cosa debbo e cosa non debbo pensare della vita, della morte e della malattia. Ho appena letto su un giornale l’articolo di una parlamentare che scrive che alimentazione e idratazione artificiale non sono – sottinteso, come ogni persona dabbene sa – cure mediche: poiché, questa signora non ha una laurea in materie scientifiche dovrei contrapporre, alla sua fastidiosa e arrogante sicurezza, una sicurezza altrettanto assoluta , questa volta nei confronti del suo quoziente di intelligenza. Ma sono laico, coltivo la religione del dubbio, le voglio dare il beneficio dell’inventario.”
Carlo Flamigni