Incontro con Roberto Balzani a cura di Pietro Caruso
Roberto Balzani, storico, professore ordinario dell’Università degli Studi di Bologna è un raro caso di intellettuale e politico nella stessa persona, probabilmente in omaggio alla regola mazziniana del pensiero e dell’azione… condotta raramente seguita in Italia dove il ceto intellettuale vive nella torre eburnea e quello politico, generalmente, si esprime lontano da qualsivoglia angolazione culturale.
A poche settimane dal voto regionale del 23 novembre al competitore del candidato Pd uscito vincente, ma con meno consensi e partecipazione di quanto non fosse ipotizzato alla vigilia delle primarie, abbiamo posto alcune domande.
Da dove nasce la consunzione dell’immagine e del funzionamento delle Regioni e della stessa Regione Emilia-Romagna?
Direi che la causa più profonda discende dal tipo di unificazione che il Paese scelse nel XIX secolo, con una netta avversione per modelli istituzionali federali e/o confederali e un regionalismo di facciata se pure configurato nella Costituzione della Repubblica del 1948. Una divisione amministrativa in 19 regioni, il Molise era ancora stretto all’Abruzzo, ma che faceva prevedere tempi lunghi di attuazione e soprattutto un decentramento di poteri ma senza reali autonomie.
Purtuttavia nel 1970 finalmente le Regioni arrivano e l’Emilia-Romagna prende subito il largo per popolarità e capacità di governo…
La generazione dei resistenti che accompagnarono Guido Fanti come primo presidente della Regione Emilia-Romagna erano uomini di carattere, moralità, dotati di quel buonsenso che viene da chi ha visto la rovina del proprio Paese alle proprie spalle. Per quanto non avessero alle spalle che poche esperienze istituzionali paragonabili ai compiti di una Regione seppero dare uno slancio straordinario e soprattutto si tennero ben lontani dallo scimmiottare le forme di governo dello Stato centrale. Questa spinta innovatrice è durata almeno fino al 1990, poi il processo ha subito forti battute di arresto.
La spinta formalmente sarebbe dovuta continuare anche negli anni Novanta…
Certo, tanto è vero che la legge sulle autonomie locali, la 142 è proprio del 1990, ma è come se il processo di riforma dei poteri locali si fosse improvvisamente arenato.
Per quali motivi si è formato questo blocco all’innovazione?
Di sicuro perché la decentralizzazione dello Stato ha privilegiato la nascita degli apparati burocratici, ma non ha fornito agli amministratori un’ampia gamma di poteri autentici di tipo economico, a partire dalla leva fiscale e dalle imposte di scopo. E se è vero che l’approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione fu frettolosa e con margini di maggioranza parlamentare esigua, uno dei paradossi dei governi di Berlusconi nei quali faceva parte la Lega Nord che sbandierava addirittura le secessioni…è stato un
federalismo rovesciato, il contrario della annunciata decentralizzazione.
Le cose con il governo Renzi sono cambiate?
Solo parzialmente. A parte il fatto che i mutamenti sulla carta partono comunque dalla convinzione che gli assi fondamentali siano i Comuni e lo Stato, mentre il ruolo delle Regioni viene ipotizzato sia ridimensionato. Questo avviene per una precisa vocazione e identità del premier che, non a caso, ha fatto il sindaco di un grande città internazionale, ma dall’altro va imputato alla scarsa capacità riformatrice in questi ultimi quindici anni delle stesse Regioni.
Includiamo l’Emilia-Romagna?
Sì, certo. Da Regione di punta la nostra si è appesantita ed ha di fatto delegato alle forze economiche sul campo sia la gestione delle politiche ambientali, sia quelle in gran parte della sanità e dei servizi sociali.
Nel suo programma per le Primarie regionali aveva chiesto un “libro bianco” nella sanità e una parziale ripubblicizzazione della gestione e soprattutto del controllo sulle politiche dei beni comuni a partire dalla raccolta e dal trattamento dei rifiuti.
C’è una forte necessità di trasparenza, verità nella spesa pubblica e gestione dei costi sui cosiddetti beni comuni. Tanti ormai sono convinti, anche nel Pd, della necessità di superare il cosiddetto “modello emiliano” non più gestibile sul piano delle risorse disponibili, ma all’atto pratico non si indica come e dove riformare il sistema. In molti si sono stupiti perché io, docente dell’Alma Mater Studiorum, ho chiesto una revisione della spesa anche per le cliniche universitarie. Ribadisco si spende troppo e male, e in ogni caso ho anche detto che trovo scandaloso che lo Stato abdichi al solo soggetto privato e all’ente locale tutti i costi della ricerca che infatti arretra.
E allora cosa auspica in vista delle prossime elezioni regionali?
Non sono ottimista sul piano della partecipazione, perché la Regione è vittima dei suoi errori ma anche di nuovi pregiudizi sulla sua essenziale necessità fra Stato e Comuni. Penso che l’Emilia-Romagna dovrebbe osare di configurare se stessa in una macroregione capace di competere sul piano europeo, ma che soprattutto debba costruire una nuova classe dirigente che riparta dal basso. Per questo non solo vanno ridotti i privilegi, ma anche radicalmente rinnovata la macchina burocratica appiattita sullo stile dei ministeri romani, cioè dei corpi sociali più restii ai cambiamenti.