di Davide Giacalone
Doveva essere unafurbata per mettere soldi nelle tasche dei campanili, ma è diventataun’avventura che porta allo scontro fra campanili. Doveva essere l’accordo perribadire il potere del capitalismo municipale, è divenuto il disaccordo chemette in evidenza l’assurdità di quel sistema. Mi riferisco a Hera e alladecisione (presa, smentita, ribadita e fermata) di venderne ulteriore partedelle azioni.
Vendere patrimonioper alimentare la spesa è una scelta dissoluta, che conduce alla rovina. Valeper singoli e famiglie, come vale per la collettività. Più di 200 comuni siapprestavano a farlo, speculando sui beni accumulati dai predecessori eimpoverendo i successori. Attenti, dunque, a quel che sta capitando in Hera.Imponente conglomerato di municipalizzate quotata in Borsa. Tipico animalemisto del socialismo capitalizzato.
Hera ha 8.500dipendenti, serve 3.5 milioni di cittadini, è al primo posto nella gestione deirifiuti, al secondo per le forniture d’acqua, al terzo per il gas ed è ilquinto operatore nazionale nella vendita di energia elettrica. Il fatturatosupera i 4.5 miliardi. Decisamente grande. Nasce dall’aggregazione di diversemunicipalizzate, fra l’Emilia Romagna, il Friuli Venezia Giulia, le Marche e laToscana, attorno al nucleo forte di quelle bolognesi. Tale processo è positivo,dato che il problema italiano non sono tanto i municipi, ma le municipalizzate.Dovrebbe portare a delle economie e alla diminuzione della spesa pubblica,inoltre contribuisce a diminuire il numero di consigli e consiglierid’amministrazione. Peccato, però, che Hera abbia generato (fra possedute,controllate e partecipate) la bellezza di altre 44 società. Gli azionisti, chedovrebbero stare con il fiato sul collo degli amministratori, del resto, sonoin gran maggioranza politici, sicché poco inclini a limitare le capanne sottoai cui tetti ripararsi in caso di mancata rielezione, né favorevoli a diminuirei posti da assegnare ai più devoti sostenitori. E sono gli azionisti, infatti,il problema.
Il 26 giugno del2003 la società fece il suo ingresso in Borsa, assegnando al flottante il 44,5%del capitale. I soldi incassati finirono nelle rispettive casse comunali. Adoggi non se ne ritrovano più neanche le tracce fossili. Siccome i soldi sonocome le ciliege, che più ne hai e più ne mangi, i comuni, ovvero gli azionistidi controllo, hanno avviato le procedure per vendere un’altra parte delcapitale, stipulando un patto di sindacato che passi dal 57,4 al 38,5% delleazioni. Vi invito a leggere quanto dichiarato dal sindaco (Paolo Lucchi) e dalvice (Carlo Battistini) di Cesena (tutto cattocomunismo alla Peppone e DonCamillo): “il governo pubblico resta garantito ed Hera non sarà privatizzabile.La garanzia è contenuta nelle modifiche statutarie che prevedono il voto maggioratolegato alle azioni vincolate e la maggioranza del 75% necessaria per cambiarelo statuto”. Lasciate perdere che i due sono convinti essere pubblica unasocietà quotata in Borsa, talché non si possa privatizzarla (ed è il solo puntosu cui mi sento di convenire con la scuola sovietica: non si può privatizzarequel che è già privato), il loro eloquio, degno di un film titolato “Peppone vain Borsa”, chiarisce l’intento: vendiamo un pezzo consistente del nostropatrimonio, sì da potere spendere i soldi subito, ma non molliamo un pelo delnostro potere. Programma che ha il pregio della chiarezza. Ne discendono alcuneconseguenze.
I compagni di untempo consideravano i patti di sindacato con disprezzo, essendo uno strumentoper mantenere il potere in poche mani, senza neanche impegnarle a scucirequattrini. C’era del vero, anche se, nel “sistema Cuccia”, era anche il modoper mantenere la politica fuori da un capitalismo asfittico. Comunque, ora sisono convertiti, al punto che i proprietari i soldi non solo non li mettono, mali pigliano. Il patto attuale, però, mette al sicuro da ogni possibile scalata,perché raccoglie più della metà del capitale. Quello che andavano preparandono. Ecco la trovata del voto maggiorato, in modo che la minoranza sia maggioranza.
In queste condizioni, perché il mercato dovrebbe investire in azioni vendute da sindaci eassessori che vogliono conservare il potere, in capo a una società i cuiamministratori sono da loro designati? Risposta: perché rendono bene. Nonincorporano il valore della contendibilità, altrimenti varrebbero di più, mascontano quello della rendita. E chi garantisce la rendita? Oh bella: quei 3.5milioni di cittadini che pagano le bollette. Sono loro che attirano icompratori, pagando più di quel che potrebbero altrimenti pagare.
Tutto filava liscioe Peppone già contava, in sogno, i soldi che avrebbe incassato, se non fosseche la Cgil s’è messa di traverso, con la più rivelatrice delle motivazionipossibili: se i comuni perdono la maggioranza la società dovrà rispondere alogiche di mercato. Oh bella, perché non è già così? E’ quotata una società chenon risponde al mercato? I compagni sindacalisti hanno qualche ragione, chemoltiplica i torti dei compagni sindaci. Per non dire dei compagniamministratori. Fatto è che il comune di Bologna, il pachiderma del branco, hafatto marcia indietro, decidendo di non vendere più. Il che ha gettato nellacosternazione gli altri Pepponi, con il pollice inutilmente inumidito. Sicchéhanno deciso di ribadire: loro avrebbero comunque venduto. Già, ma si pone unproblema: il comune di Bologna, quale azionista e quale componente decisivo delpatto di sindacato, procederà ugualmente alla modifica dello statuto? In casoaffermativo, ciò porterà ad accrescere il peso di Bologna nel potere interno aHera. In caso negativo, porterà gli altri sindaci a far la parte deglisciocchi.
In tutti i casi ilpunto decisivo è: una società quotata in Borsa che risponde a logiche di poteree spartizione di tipo municipale. Per rendere appetibili azioni di questo tiposi deve pagare un considerevole premio. A spese dei cittadini che eleggonoquella classe politica. Se ne sono consapevoli, auguri. Se non ne sonoconsapevoli, portino velocemente la mano a proteggere il loro portafogli.