di Guido Piraccini
Per gli operai dell’acciaieria Thyssenkrupp di Torino era la notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007. All’improvviso, durante una normale fase di lavorazione del metallo, partono alcune scintille che raggiungono chiazze d’olio e rimasugli di carta e sviluppano un principio di incendio.
Le tute blu corrono agli estintori, sembra che riescano a domarlo.
Poi si rompe un tubo, esce olio incandescente, si forma una nube e provoca un’esplosione.
Muoiono in sette.
È passato poco più di un anno da quell’inferno. Un anno durante il quale è stato chiuso lo stabilimento torinese della società tedesca; per la prima volta in Italia, il 17 novembre 2008 il Tribunale di Torino ha rinviato a giudizio l’amministratore delegato della Thyssenkrupp, Harald Espenhahn, con l’accusa pesantissima di «omicidio volontario con dolo eventuale».
Una pena che prevede fino a 21 anni di carcere.
Per gli altri cinque manager, il capo d’imputazione è omicidio colposo. E’ stata accolta la linea del pubblico ministero Raffaele Guariniello, secondo il quale Espenhahn e i suoi erano al corrente dei rischi concreti per la salute degli operai e non hanno mosso un dito per prevenire gli incidenti.
Viene da pensare: il comportamento dell’Amministratore delegato e dei manager della Thyssenkrupp è da considerarsi un caso isolato oppure è un comportamento frequente, molto più ripetuto, di quello che si possa pensare?
Una cosa è certa: le sentenze della Cassazione di condanna di imprenditori e amministratori di aziende per responsabilità in relazione ad infortuni sul lavoro gravi e/o mortali a propri dipendenti, sono in aumento.
Come del resto è angoscioso pensare che di fronte a 1.200 morti all’anno sul lavoro, a stragi qual’è stata quella della Thyssenkrupp di Torino, in questo nostro paese non ci sia una protesta, un moto di sdegno civile e morale che non si limiti a dire: bisogna invertire la rotta.
Infatti tutto continua come prima.
L’Italia ha il primato in Europa per le morti sul lavoro, che stando a un rapporto del Censis sono il doppio rispetto agli omicidi.
Gli ultimi dati disponibili sono quelli dell’INAIL riferiti al 2007: oltre 912 mila denunce per infortuni. Quanto ai morti se ne sono contati 1.170: in leggero ribasso rispetto al 2006.
Un aspetto che fa riflettere: la forma contrattuale del lavoratore che maggiormente subisce incidenti (le uniche due categorie con il segno più) sono quelle degli interinali (che cambiano frequentemente ambiente di lavoro) ed i parasubordinati (in genere nuovi assunti), adibiti per lo più a lavori manuali nei settori dell’industria manifatturiera (più 13,6 e più 5,6 per cento).
A onore del vero i dati INAIL, purtroppo, sono incompleti, mancano quelli relativi alle malattie professionali.
L’Organizzazione internazionale per il lavoro stima che in Europa per ogni morte a causa di infortunio ce ne sono altre 4 per malattie di origine professionale.
C’è poi un altro motivo che rende quei numeri lacunosi: sempre più frequenti sono le persone a cui il datore di lavoro consiglia di non denunciare l’infortunio.
In buona sostanza, gli incidenti vengono mascherati come domestici per far ricadere le cure sul Servizio Sanitario Nazionale e, soprattutto, per evitare l’innalzamento del premio INAIL a carico dell’imprenditore.
Questi sono alcuni dati nazionali.
Cosa è successo dalle nostre parti durante il 2007 (dati INAIL):
-In Regione Emilia Romagna gli infortuni sono stati 130.626;
-Nella nostra Provincia di Forlì-Cesena sono stati 11.710; di cui 12 mortali (1 al mese);
Alcuni dati riferiti ai settori di produzione: nel settore metalmeccanico si sono riscontrati 2.868 infortuni; nelle costruzioni 1.297; commercio 796; trasporti 545; alberghi/ristoranti 394. Nel settore delle costruzioni si sono verificati gli infortuni più gravi con 3 morti.
Qualcosa si sta facendo?
Il Governo Prodi ha prodotto, subito dopo la strage di Torino, il nuovo Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro ( Decreto Legislativo 9 aprile 2008 n°81);
Il Decreto è composto da 1.000 pagine di norme: contenenti 306 articoli; 51 allegati.
Sono state individuate oltre 1.000 violazioni possibili; molte delle quali sanzionate così pesantemente da risultare di fatto inapplicabili.
E si badi bene che questa montagna di norme/articoli/allegati/sanzioni devono essere gestite direttamente dal titolare/amministratore delegato (che sia un artigiano o un grande imprenditore).
Infatti il nuovo Decreto Legislativo dice chiaramente che tutti gli obblighi relativi alla Valutazione di tutti i Rischi della propria attività (art.17) con conseguente elaborazione del Documento di Valutazione dei Rischi (art.28) è in capo al Datore di Lavoro e che tale obbligo non è delegabile.
E’ veramente difficile pensare come il legislatore abbia potuto pensare che tutto questo sia concretamente possibile. Stiamo parlando di norme a tutela della salute e della sicurezza nel posto di lavoro di milioni di cittadini/lavoratori, cioè di norme che devono indicare, per esempio, quali dispositivi di sicurezza si devono usare quando si lavora ad una altezza superiore a metri 2, o quando si lavora ad una macchina utensile, ecc.
Quindi disposizioni e prescrizioni che devono essere usate sempre durante la giornata lavorativa da parte del lavoratore. Di norme che devono indicare i criteri sul come procedere (da parte del datore di lavoro) nella indispensabile preventiva formazione/informazione sui potenziali rischi nei quali si può incorrere in quel dato lavoro se non rispetta le norme di sicurezza previste.
Quindi una legge che doveva essere concepita come uno strumento di lavoro facilmente accessibile e comprensibile per qualsiasi imprenditore e lavoratore.
Al contrario è stato approntato un Decreto di enorme complessità e le imprese devono dotarsi di consulenti tecnici esterni all’azienda che non sempre risultano essere professionalmente adeguati.
Tale condizione determina delle preoccupanti conseguenze; da una parte l’esternalizzazione delle funzioni spesso non riesce a produrre quella continua formazione ed informazione che si dovrebbe tradurre in cultura aziendale in merito alla salute e sicurezza nel lavoro.
Dall’altra, tutto questo viene vissuto dalle imprese sostanzialmente come un inutile aggravio di costi senza comprenderne la necessità.
E quindi tutto continua come prima.
E’ vero in questo nostro paese c’è una arretratezza, una mancanza di sensibilità culturale sulla salute e sicurezza nel lavoro enorme a tutti i livelli.
Un esempio? Non mi risulta che nel Consiglio Comunale di Cesena ci sia stato un consigliere comunale, almeno da molti anni a questa parte, che abbia sentito il bisogno di sapere, di essere informato in merito alla gestione della salute e della sicurezza dei dipendenti comunali, presenti nell’antico Palazzo Albornoz, (in quanto luogo di lavoro) e con quale piano operativo ed organizzativo si intende agire, in caso di emergenza, ai fini della sicurezza di qualsiasi cittadino che abbia avuto bisogno di addentrarsi nei meandri dei corridoi del palazzo comunale considerando prima di tutto gli anziani e i portatori di handicap. Se così non è fatemelo sapere.