di Giovanni Lazzara
I quasi venti anni che ci lasciamo alle spalle nascono da una delle pagine più drammatiche della ancor giovane storia della Repubblica. Un’ondata incontenibile di scandali travolse il sistema politico liquidandolo dopo decenni di consolidato esercizio del potere. Già da allora, non fummo in tanti a mettere in guardia il pericolo di una classe dirigente spazzata via dall’intervento della magistratura. La Storia, infatti, insegna che tutti i sistemi politici esautorati da un conflitto con il potere giudiziario, per quanto valide e fondate siano le ragioni che animano i capi d’accusa, finiscono per degenerare in un sistema peggiore di quello appena sostituito. L’Italia non è sfuggita a questa regola e,oggi, a consuntivo dell’era contrassegnata da una Seconda Repubblica abortita senza nemmeno essersi realizzata, non possiamo che avvertire sconcerto e preoccupazione rispetto agli scandali e al malcostume che, ancor prima delle indagini della magistratura e, in certi casi, a prescindere da queste, affollano le cronache politiche segnando un’epoca ancora più sconcertante e avvilente di quella che caratterizzò i primi anni Novanta. Tanto è che fra il crollo del sistema di allora e quello che si annuncia come la fine del sistema attuale si apre una lunga parentesi caratterizzata dalla lunga stagione del pro/contro Berlusconi che ha distratto l’attenzione di tutti dai reali problemi del Paese che la grave congiuntura economica ha oggi svelato con drammatica concretezza. Nella logica partigiana della contrapposizione fra tifoserie di un bipolarismo imperfetto, infatti, il dibattito politico di questi anni si è arenato sulla logica dello schieramento a prescindere dai contenuti e dalle questioni che, di volta in volta, avrebbero dovuto essere affrontate. In un contesto simile, infatti, Berlusconi è stato abilissimo a trasformare le regole del confronto in una rissa da stadio con tifoserie pronte a nutrirsi, complice una stampa non sempre all’altezza del ruolo che la stessa reclamava per il Paese, di superficialità e giudizi sommari, trascuratezza e sterili diatribe intorno a vizi e pregi di questo o di quell’altro leader politico, senza però mai centrare l’essenzialità dei problemi, la loro risolvibilità e la necessità di elaborare un progetto per l’Italia che risultasse strumentale al rafforzamento del Paese sullo scenario internazionale. Quanto accaduto è grave e costringe oggi tutti quelli che si sono schierati, prestandosi ad un conflitto più fazioso che politico, a farsi da parte ovvero a confrontarsi con nuove realtà che, comprensibilmente, tendono a sottolineare sempre e comunque di non volersi contaminare con i vecchi germi della politica o, anzi, con i germi di una politica vecchia. Ma è sufficiente definirsi “nuovo” per essere migliore e, soprattutto diverso da ciò che si intende sostituire? Diciamo subito che la questione non può essere risolta in una prospettiva meramente generazionale ma deve essere affrontata da una prospettiva di natura squisitamente politica, sostituendo alle contrapposizioni sterili del più recente passato, un confronto su contenuti fra forze credibili ed autorevoli quale non sembra essere nessuna di quelle organizzate negli attuali schieramenti (che peraltro, in molti casi, non sono partiti). Da venti anni a questa parte, infatti, la scena politica si è divisa fra Berlusconi ed i suoi avversari, più o meno credibili ma tutti, purtroppo, rassegnati ad accontentarsi del ruolo antiberlusconiano ed occupati a misurare la distanza fra il leader indiscusso del centrodestra, alla cui ombra si è lasciata proliferare una classe dirigente impresentabile, e le mille fazioni dell’opposizione. Tutto ciò, oltre a consentire una longevità politica dell’avversario altrimenti sconosciuta in Europa, ha disorientato l’elettorale costringendolo a mutuare dal dibattito politico la stessa logica di schieramento ed appartenenza che ha trasformato l’espressione di voto in una sorta di professione di fede. La politica si è nutrita del dogma pro o contro Berlusconi e la società civile si è allontanata disaffezionandosi sempre di più rispetto a vicende in parte incomprensibili rispetto all’urgenza dei problemi reali del Paese e, per il resto, stucchevoli per la loro più consona adeguatezza a riempire le colonne dei rotocalchi scandalistici. Fra le due fazioni, sempre più lontane, sempre più contrapposte ed incapaci di dialogare, si è aperto uno spazio in cui il Paese reale può ritrovarsi, pur attraverso i distinguo e le diversità che rimangono ma in una prospettiva di rilancio nazionale e di recupero della sobrietà politica essenziale per affrontare con serietà e rigore la stagione di ulteriori sacrifici che ci attende. Questo spazio non può essere occupato da alcuno dei soggetti politici esistenti stante il livello della loro consociativa compromissione con le logiche degenerate ed inconcludenti dell’ultimo ventennio; né può rappresentare un’alternativa credibile la proposizione di una forza che altro non sarebbe la cosmetica riproposizione cumulativa di etichette superate dalla prova dei fatti che li hanno visti passivi spettatori dello scempio politico di questi anni; al contempo, non possono accreditarsi credibilmente come novità, costole improvvisate di piccoli e grandi centri di potere che sembrano parlare solo alla pancia delle classi più agiate del paese in nome di ricette iperliberistiche di ottime intenzioni ma del tutto inattuabili, oltre che indifferenti al dramma della povertà che inizia a contaminare la moltitudine di nuclei familiari monoreddito che soffrono aspramente il morso della crisi; men che mai possono rappresentare una soluzione di stabilità i sobillatori della protesta con o senza la barba di ex comici riadattati; nemmeno, infine, possono accreditarsi coloro che dopo lunghi anni di partigianeria e faziosità nel coro di uno dei due schieramenti, ora ne svelano le malefatte o ne prendono le distanze quasi dimenticando di averne sostenuto e condiviso le gesta. A me sembra, invece, che oggi la legittimazione ad esercitare un ruolo credibile nell’area dei milioni di cittadini in uscita dalle logiche faziose del ventennio trascorso, sarebbe invocabile solo da un nuovo soggetto politico che, organizzato intorno a regole chiare, condivise, trasparenti e verificabili dall’esterno anche per quanto concerne la gestione finanziaria, sappia rompere i ponti con il passato recente, recuperare i valori fondanti dell’Italia repubblicana ancora attualissimi nel dettato costituzionale e nella coscienza critica del Paese, rilanciando un’offerta politica che sappia sciogliere gli ormeggi paludosi di questi anni e prendere il largo verso una prospettiva di piena integrazione europea dell’Italia. Naturalmente, occorrono risorse, uomini ed idee che non siano quelle che ancora si agitano in slogan ripetuti in modo ossessivo quasi che l’opinione pubblica dovesse dimenticare di averli sin qui ascoltati troppo a lungo e troppo inutilmente. In questa prospettiva, il Governo Monti che ha chiuso questa Legislatura e, molto probabilmente, aprirà anche la prossima occupando la scena politica, potrebbe essere colto come un’occasione di stemperamento delle conflittualità nate intorno alle persone più che alle idee, creando una sorta di ammortizzatore nel difficile passaggio dalla seconda alla terza Repubblica che verrà. C’è da auspicare, allora, in un risultato elettorale che sanzioni definitivamente le logiche litigiose ed inconcludenti del passato, incoraggi il sostegno ad un ulteriore governo di emergenza che sarà chiamato ad affrontare un’ altra stagione di rigore economico, sospinga l’Italia verso il recupero di una sobrietà politica e consenta, infine, alle energie positive del Paese di organizzarsi intorno ad un nuovo soggetto politico che sia pronto a raccogliere la sfida più ambita di sempre: quella del recupero della normale dialettica politica di confronto costruttivo nell’interesse della collettività e della comune patria europea. Una sfida di ragionevolezza con protagonisti quelli che in questi anni non si sono prestati allo schiamazzo, non hanno urlato la loro faziosità ma hanno continuato ad osservare con doloroso e silenzioso distacco il declino di un paese che non smettiamo di volere migliore.