di Luigi Tivelli*
Mentre impazza il “toto-festini” e il solito scontro tra politici e Magi-stratura la classe politica avrebbe invece una seria opportunità di riscatto e di riprendere a misurarsi con i veri problemi del Paese. Il 12 di novembre infatti il Governo ha presentato la prima versione del National Reform Program (NRP), il documento di matrice europea che andrà a sostituire la Decisione di finanza pubblica (DFP), proiettandosi fino al 2020. Non c’è bisogno di dire che il regista dell’operazione è stato il Ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che però, smentendo i suoi detrattori, ha fatto una seria apertura al lavoro collegiale, coinvolgendo vari altri ministri. I critici del Governo, e anche qualche ministro, hanno sin qui denunciato che l’azione dell’Esecutivo si è sostanzialmente limitata a garantire la tenuta dei conti di finanza pubblica. Quale migliore occasione di un confronto su politiche a mediolungo termine (quelle tipiche del NRP), uscendo una volta tanto dalla logica del vivere alla giornata per passare finalmente dalla fase del rigore alla fase dello sviluppo? Eppure non si avverte ancora alcun confronto serio sulle riforme e sulle politiche pubbliche delineate nel documento in questione. Le principali priorità in esso indicate son il ritorno al nucleare; una riforma fiscale basata sul graduale passaggio delle imposte dalle persone alle cose; la libera-lizzazione dei servizi pubblici; l’aggancio dei salari alla produttività; un nuovo impulso per il Mezzogiorno (riservando finalmente ad esso in fondi FAS); la rivalutazione del patrimonio demaniale; l’introduzione di zone a fisco basso e “burocrazia zero” nelle aree svantaggiate. Si tratta di un elenco che in larga parte, perlomeno in linea di principio, starebbe bene sia alla destra che alla sinistra. Eppure di questi temi non si discute. Quanto a noi, vorremmo sommessamente aggiungere una nostra proposta: una seria riforma, finalmente, dei meccanismi di governo del mercato del lavoro e del sistema degli ammortizzatori sociali. Basterebbe, ad esempio, dare un’occhiata a come funziona in Danimarca e in altri paesi il modello della flexsecurity. Il Governo si è infatti sin qui attestato sulla linea di stanziare un grande tesoretto per gli ammortizzatori in deroga, teorizzando che sotto i colpi della crisi non è il caso di fare grandi riforme. E invece, come dimostra lo sguardo comparato ai paesi con classi dirigenti più serie, proprio i momenti di crisi sono i più opportuni per varare appropriate riforme, anche di tipo strutturale. Nelle scorse settimane l’OCSE, dopo accurate indagini sui duri colpi inferti dalla crisi, ha presentato due rapporti, che fanno il punto su due aspetti cruciali degli effetti della recessione: la pressione fiscale e la disoccupazione giovanile, due fattori, come vedremo più avanti, legati da un rapporto più stretto di quanto possa normalmente apparire. Cominciamo dalla pressione fiscale. La pressione media nei Paesi dell’OCSE è passata dal 35,4 per cento del 2007 al 33,7 per cento del 2009, tornando sui livelli dei primi anni Novanta. Sui 28 paesi per i quali i dati del 2009 sono definitivi, 19 hanno fatto segnare un calo e 9 una progressione. Tra questi, guarda caso, c’è l’Italia, che per la prima volta dopo molto tempo sale sul podi il livello della pressione fiscale è infatti salito dal 43,3 al 43,5 per cento, di modo che siamo passati dal quarto al terzo posto, superando il Belgio. Ma chi c’è nelle altre due postazioni del podio? Al primo posto c’è la Danimarca (48,2 per cento) e al secondo la Svezia (46,4 per cento). Peccato però che si tratti dei due paesi nordici con il sistema di Welfare e di servizi pubblici più avanzato del mondo. Noi invece siamo, a dir poco molto mediterranei nel Welfare (soprattutto nel Welfare per il lavoro) e soprattutto nei servizi pubblici. Il caso dei rifiuti a Napoli, o dei disservizi diffusissimi nel sistema dei trasporti urbani possono bastare come esempi. Le riforme a costo zero. Ma non solo. La Danimarca ad esempio è un paese modello del Welfare per il lavoro, con la sua flexsecurity, mentre noi – e qui c’è l’anello di congiunzione fra i dati sulla pressione fiscale e i dati sulla disoccupazione giovanile – abbandoniamo i giovani che vorrebbero lavorare, o i giovani addetti ai lavori precari, a se stessi. In Danimarca i giovani rimangono disoccupati soprattutto nelle fasi di passaggio da un lavoro all’altro, e godono di forme di sostegno al reddito e di supporti di formazione e di riconversione professionale nelle fasi di disoccupazione. Il risultato di tutto questo è che noi siamo tra i sette Paesi OCSE in cui la disoccupazione giovanile veleggia sopra il 25 per cento, mentre ad esempio in Germania e in Olanda si attesta sotto il 10 per cento. I dati OCSE relativi al secondo semestre 2010 collocano la disoccupazione giovanile italiana al 25,4 per cento, mentre la media OCSE si attesta al 18 per cento. Ancora più grave è il dato sul tasso di occupazione giovanile, sceso per noi di ben 6 punti in dieci anni, e attestato su un misero 21,7 per cento, rispetto ad una media OCSE del 40,2 per cento. Ma, se il nostro Welfare ha i limiti che ha, se il sistema di servizi pubblici è quello che è, dove va a finire quel 43,5 di pressione fiscale? E’ una domanda che giriamo alle classi politiche e alle forze sociali. L’OCSE, preoccupato che in Paesi come il nostro un’intera generazione (quella cui stiamo rubando il futuro) rimanga ai margini del mercato del lavoro (fra l’’altro, ben il 44,4 per cento dei giovani disoccupati italiani è addetto al lavoro temporaneo e precario, mentre la media OCSE è del 35,8 per cento), sollecita nel suo rapporto politiche proattive, per l’apprendistato, per la formazione, con agevolazioni fiscali alle assunzioni di giovani, etc. .C’è qualcuno che vuole rac-cogliere finalmente queste indicazioni e sollecitazioni? Sarebbe infatti ora di finirla con la schizofrenia di una pressione fiscale da Paese nordico avanzato e una disoccupazione giovanile (e in larghe aree del Paese anche servizi pubblici) da Paese mediterraneo arretrato. Fra l’altro, noi, da sempre attenti e ri-spettosi dei vincoli di finanza pubblica, sappiamo bene che esistono anche riforme a costo zero per l’erario. Basti pensare a riforme tese a restituire concorrenzialità ad un sistema ingessato da vincoli, lobbies, oligopoli e corporazioni varie, o a quella riforma che passa sotto il nome di “impresa in un giorno” – una specie di Araba Fenice (“dove sia nessun lo sa, cosa fa nessun lo dice”), per la quale basterebbe una congrua azione di semplificazione e di coordinamento burocratico, sostanzialmente a costo zero. Oppure a quella grande riforma, che farebbe risparmiare sia i cittadini e gli imprenditori che lo Stato e le Amministrazioni pubbliche, che definiamo “ricostruzione di un’etica pubblica condivisa”. Una riforma per la quale c’è bisogno di qualche legge (che fine ha fatto la, a suo tempo, tanto decantata nuova disciplina dei reati contro la Pubblica Amministrazione?), ma soprattutto di nuovi comportamenti dei politici, dei burocrati, degli imprenditori, che non solo sarebbero a costo zero, ma tanto farebbero risparmiare l’Erario e i troppi soggetti devianti (esclusi ovviamente i beneficiari di mazzette). Ci sarebbe un solo costo da pagare, quello di tornare ad essere tutti veri cittadini, rispettosi delle leggi e davvero consapevoli dei propri diritti e, sopratutto, doveri.
*Consigliere parlamentare e politologo