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PD. Riforme. Quale progetto e idea di partito

     Giugno 26, 2017   No Comments

di Ines Briganti

Se seguissi il cuore più che la mente, dopo tutto quello che sta succedendo nel nostro paese ed in Europa avrei una gran voglia di dire: altro che Tangentopoli, da dove ormai si potrà ricominciare? Nel paese si impone una questione meridionale “vecchia”, mai risolta dal 1861, ma con aspetti nuovi, ospedali costati miliardi e mai utilizzati, disoccupazione ingestibile, mafie sempre più forti, dunque un Sud in ginocchio in cui, si fa per dire, l’unica nota positiva, registra l’economista professor Leon, è un calo demografico, dovuto alla fuga dei giovani! La corruzione ormai ci ha avvolto come il baco da seta dentro il proprio bozzolo, per non parlare del disastro della cultura e della scuola. Ma non cederò mai alla tentazione della rassegnazione e della rinuncia. Continuerò a mantenere alta la forza di indignarmi, di protestare, anche arrabbiandomi se sarà necessario e, possibilmente, di fare proposte. Confortata dai molti che, ancora, fortunatamente la pensano come me, cercherò di usare la mente ed il cuore. Diceva qualche giorno fa lo storico Cardini che, nei momenti più difficili della propria storia il popolo italiano, con un colpo di reni, ha avuto la forza di reagire e di risollevarsi, pur senza mai cimentarsi in una vera e propria rivoluzione. Citava ad esempio il Risorgimento, visto che si parla tanto di centocinquantesimo, sulle cui vicende varrebbe la pena soffermarsi, citava ancora la guerra di Liberazione, la ricostruzione all’indomani della guerra, la sconfitta del terrorismo. Vorrei dunque cercare di dire qualcosa ancora della sinistra e del PD, ma non solo, vorrei anche fare qualche riflessione, da sinistra, sulle elezioni regionali, sulla situazione politica attuale, sul caso “Fini”. Sul PD vorrei riprendere il ragionamento che avevo già avviato sul ruolo fondamentale che esso dovrebbe avere sulla partita “riforme”, non solo e non tanto in quanto disposto a sedersi al “tavolo delle riforme”, ma avanzando una serie di proposte su quali riforme e sul loro ordine di priorità (sarebbe nel frattempo auspicabile che si predisponesse da parte della maggioranza un luogo che potrebbe e dovrebbe essere il parlamento in cui finalmente discutere di riforme). Pare che la madre di tutte le riforme sia il Federalismo. Ed effettivamente potrebbe essere una buona cornice-contenitore entro il quale lavorare sulle questioni più urgenti:la sanità, la scuola, la formazione, l’organizzazione del sistema amministrativo,… ma in un momento come questo è difficile parlare di Federalismo, tanto che dal governo è venuta solo una legge-delega, ovvero una promessa, con queste indicazioni: il Nord avrà più controllo sulle sue tasse, il Sud non perderà nulla anzi starà meglio, gli italiani pagheranno meno tasse. Su queste promesse poco c’è da discutere, ma sarebbe bene che il PD una sua proposta l’avesse, non solo su quale Federalismo ma anche su quali riforme istituzionale in ordine di priorità. Tuttavia, ho raccolto in questi ultimissimi tempi, alcuni segnali positivi. Partendo dal “cantiere” aperto dal PD dal quale dovranno uscire le parole-guida per il partito, in un sondaggio di Repubblica è emersa una graduatoria delle parole più votate, davvero interessante: lavoro e lotta al precariato, lotta all’evasione fiscale, legge sul conflitto di interessi, impegno su scuola, ricerca e formazione, legalità, rinnovamento dei dirigenti, riforma della giustizia, laicità, più giustizia sociale. Dunque sulle cose che i nostri politici dovrebbero fare la gente ha le idee molto chiare e, quello che è interessante, è che non si tratta solo di gente del PD. Quest’ultima poi, la cosiddetta “base”, riorganizzatasi nei circoli, chiede a gran voce “etica” ovunque, nelle istituzioni , nelle amministrazioni nazionali e locali, ma anche nel mondo degli affari, della finanza, dell’economia: insomma chiede che la politica faccia il suo mestiere che è anche quello di esercitare il controllo. Ora invece la politica , quella che dovrebbe essere scritta con la P maiuscola si è fatta fagocitare dagli affari. Discutano pure D’Alema, Bersani, Franceschini, … ma la gente ha capito che non c’è più tempo per dividersi in dalemiani, bersaniani, franceschiniani, serrachiani e magari ora anche vendoliani. Ora è tempo per la classe dirigente del PD di capire che chi vuole lavorare per dare sostanza e concretezza d’azione alle richieste rappresentate dalle parole-guida può e deve rimanere, chi non ha capacità o volontà di farlo sarebbe bene che se ne andasse. Se mi si chiedesse ora con chi sto fra Bersani, Franceschini ed altri risponderei: “con nessuno”, perché vorrei poter scegliere un progetto, un’idea del partito nel quale mi fosse possibile restare per discutere sulle cose che contano per il bene del paese. Il voto regionale è stato un indicatore preciso: nel 2006 il centro sinistra era al governo nazionale e guidava sedici regioni, adesso è all’opposizione e governa otto regioni in un perimetro circoscritto quello delle tradizionali regioni rosse. Due regioni, il Piemonte e il Lazio, si sono perse per incapacità di gestione politica da parte degli organi dirigenti del partito. Una riflessione a parte merita il gravissimo problema dell’astensionismo: molti sono i cittadini che non sono andati a votare anche per protestare contro una politica autoreferenziale e contro la disgregazione in atto nei partiti. Se poi si pensa che siamo di fronte ad un governo totalmente assente, ad una maggioranza ormai nell’impossibilità di esprimere un qualunque accordo sulle questioni più urgenti da risolvere – immigrazione, carceri, scuola, università – è ovvio che ci si chieda perché il Partito Democratico non si fa più “ardito”. Convengo con Bersani quando dice”dobbiamo fare una battaglia perché sia più chiaro nel paese che bisogna legare questioni sociali e di democrazia, che bisogna ripristinare meccanismi di decisione collettiva che non siano affidati ad un uomo solo, che c’è ormai una piegatura del sistema democratico in senso plebiscitario, che le azioni di governo sono volte unicamente ad accumulare consenso facendo leva soprattutto sulla indiscutibile forza carismatica del leader”. L’analisi è tutta pienamente condivisibile. Ci si attende una proposta operativa e concreta, da affidare a persone capaci di portarla avanti con determinazione, scegliendo idonei compagni di viaggio che condividano le idee e gli obiettivi. Ricordo che, come ci insegna la storia, anche quella recente, il potere carismatico segue una sua parabola di discesa naturale sulla quale si potrebbe anche esercitare una qualche forzatura e che, come dice Machiavelli, chi va alla guerra col breviario e non con le armi giuste è destinato a “ruinare”,: ovviamente, le armi del millecinquecento erano quelle dei soldati, anche mercenari, le nostre armi devono essere le idee e la forza e la capacità di portarle avanti. In questa operazione è necessario che la sinistra recuperi il ruolo di capofila che la storia le aveva attribuito, guardando comunque verso tutte quelle aree politiche che, pur di provenienza culturale diversa ne condividano modalità ed obiettivi. E qui si pone per qualcuno il problema di come guardare quanto sta succedendo dentro il PDL a seguito della posizione di Fini. È evidente che, per la sua stessa natura, un partito deve sempre seguire con molta attenzione tutto quello che succede negli altri partiti per esprimere valutazioni, ricavarne analisi e comportamenti. È quindi ovvio che il Partito Democratico deve seguire con attenzione quanto sta accadendo. Il percorso che Fini ha compiuto nello scenario politico del nostro paese, e non da ora, ha un suo iter interessante e coerente. Su molte questioni riguardanti soprattutto la grande civiltà occidentale dice cose condivisibili: il Federalismo non deve spezzare l’unità nazionale, è necessaria e urgente una vera riforma della giustizia che porti davvero ad una giustizia uguale per tutti, investire sulla ricerca, sull’innovazione, sull’università non solo è un dovere ma una necessità, l’integrazione va affrontata come un processo storico necessario. Ho sempre pensato, ed ora lo penso più che mai, che la più grande lacuna della storia del nostro paese sia stata proprio la mancanza della formazione si una destra liberale così come è avvenuto negli altri paesi dell’Europa occidentale, vedi ad esempio Francia ed Inghilterra. La deriva del liberalismo su posizioni autoritarie che da noi ha portato al fascismo è stata la causa di questa ferita della nostra storia. Ebbene io vedo nell’azione di Fini la possibilità di far nascere, appunto, anche nel nostro paese una destra che abbia le caratteristiche di democrazia e di libertà come quella francese, quella inglese, ecc. Detto questo però l’atteggiamento del partito democratico e delle sinistra deve essere quello di attento osservatore, interessato a valutare con favore tutto quanto può incrinare la destra illiberale, plebiscitaria, insomma il non-partito di Berlusconi: ma si lasci a Fini e alla sua destra la sua strada, il suo percorso, il suo progetto. Infine un’ulteriore riflessione sulla sinistra, da sinistra. C’è stato un tempo in cui insegnare la storia dell’Ottocento, del Risorgimento insomma, era considerata un’azione propria di un insegnante di “destra”, quantomeno conservatore. La lettura dello Statuto Albertino, della Costituzione della Repubblica Romana, di brani di Mazzini o di Cattaneo o la lettura di Manzoni, delle proposte che Garibaldi faceva da parlamentare era “roba superata e non utile”. Ebbene ora sono molto lieta, anche un poco orgogliosa e finalmente non eretica, per aver dedicato, insieme ai miei studenti, il giusto tempo alla conoscenza critica, mai apologetica, di quella parte importante della nostra storia, di cui oggi giustamente ricordiamo il centocinquantesimo. Ma di questo parleremo in una prossima occasione.

  •   Published On : 7 anni ago on Giugno 26, 2017
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  •   Last Updated : Giugno 26, 2017 @ 9:57 pm
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