di Luca Ferrini*
I partiti politici esistono ancora?
Il quesito sembra quasi ridicolo: certo che esistono. Pervadono tuttora i gangli vitali della vita politica. Scelgono i rappresentanti in Parlamento, visto che l’elettore non può più esprimere direttamente preferenze. Percepiscono (e si fanno sfilare di soppiatto da malfidati tesorieri) milioni di euro l’anno di rimborsi elettorali. Posseggono giornali, controllano lobby, indicano esponenti in consigli di amministrazione di potenti società in mano pubblica. Nominano commissioni di controllo nell’informazione televisiva. Insomma, i partiti, intesi in quanto struttura-partito, esistono e, se vogliamo, ancora imperano fin troppo, da Roma alla periferia, dalle Camere ai Consigli comunali. Tuttavia, diversamente da un tempo (nemmeno tanto remoto), oggi essi mancano di un radicamento profondo nella società. Hanno perduto i loro solidi riferimenti culturali. Non sposano più teorie economiche per cui battersi. Non hanno più una visione del futuro della società da fissare a traguardo della loro attività politica. In altre parole, non sono più un riferimento per la gente. Vivono, anzi sopravvivono grazie ad una tremebonda paura di sparizione che li porta, giorno dopo giorno, a scavarsi la fossa da soli, virando verso l’autoreferenzialità ed allontanandosi, nel contempo, dal sentire popolare. Il partito politico, ieri, era la seconda casa del cittadino. Casa materialmente rappresentata sul territorio dalla sezione, dal circolo, dalla sede. I giovani neofiti prendevano la ‘tessera’ e andavano alla scuola di partito come andavano a dottrina dal prete (e, a volte, le due sedi coincidevano). Le ‘case’ erano laboriose fucine di idee. Oggi si sono trasformate soltanto in centri (obsoleti) di interessi. Una volta, i partiti, preparavano la classe dirigente del futuro. Oggi sono diventati piazzisti per gente che sceglie la politica non per passione ma per mestiere. Un tempo educavano, oggi sistemano. Un tempo elaboravano progetti di progresso, oggi mantengono le redini dell’esistente. Vanno perciò ripensati, da cima a fondo. Nella loro struttura come nel loro compito democratico. La politica delle patrie partitiche non tornerà più. L’elettorato, crollate le ideologie, si farà sempre più volubile, incline al cambiamento. I soggetti dell’arena politica dovranno imparare a riallacciare i rapporti con le persone, modificando il loro linguaggio e la loro capacità di attrazione. Non più catalizzatori di appartenenza ‘a vita’, ma promotori di idee e di progetti che saranno condivisi caso per caso, momento per momento, elezione per elezione. I partiti del futuro (sempre che ci sia un futuro per i partiti), in ragione dello sfarinamento culturale della nostra società, assomiglieranno sempre di più a comitati elettorali, presenti e determinanti in prossimità del confronto delle urne, ma obliati dai più nelle fasi di esecuzione dell’azione di governo. Non si torna più indietro su questo punto. La ‘casa’ politica continuerà ad esistere per uno zoccolo duro di irriducibili affezionati e per la classe dirigente del partito: la restante, maggioritaria, parte del corpo elettorale sarà sempre più pronta e disposta a modificare il voto in considerazione delle proposte politiche e non di un’appartenenza ombelicale. Il che, inevitabilmente, imporrà una maggiore concentrazione, oltre che sul linguaggio di approccio e di marketing politico (parola orrenda che non possiamo evitare), sugli aspetti di trasparenza, di onestà e di disinteresse dei pubblici amministratori, dal Sindaco del più piccolo paesino di provincia al Presidente del Consiglio. L’elettore, non più condizionato come un tempo dal legame ancestrale con il partito, sarà guidato nella scelta unicamente dalla credibilità di una forza politica. Credibilità fatta, appunto, di correttezza, pulizia e passione degli uomini che la rappresentano. La stessa struttura interna, con le sue regole, non potrà non risentire di queste moderne esigenze. Nuove regole significano nuova democrazia interna, guidata da un potenziato valore decisionale della base nelle grandi scelte. Di qui, il mio vaticinio: il primo che intuirà l’importanza della sensazione di freschezza che l’elettore italiano avverte nell’osservare la campagna per le presidenziali americane, fatta di primarie vere e di vero confronto democratico all’interno di un partito, avrà in mano il futuro della politica italiana. Perché è lì che anche l’elettore patrio vuole arrivare: vuole arrivare ad essere parte attiva e davvero determinante di un meccanismo selettivo trasparente. Meccanismo che, con la ‘scusa’ delle primarie, permette a tutto un popolo di conoscere approfonditamente le idee, il carattere ed i progetti di un candidato ed, allo stesso tempo, permette al medesimo popolo di dibattere e perfezionare, con metodo dialettico, i programmi di riforma della società.
E’ finita, insomma, l’avventura del partito politico nell’accezione classica sperimentata per oltre un sessantennio in Italia. Purtroppo, gli attuali protagonisti della scena politica non se ne accorgono e continuano imperterriti in una squallida (quanto suicida) recita di un copione che annoia ogni platea. Ed ho l’impressione che anche un insuccesso al botteghino non sia in grado di persuaderli, a breve, ad abbandonare il palcoscenico.
E ciò, malauguratamente, con grave danno per la politica vera, che altro non è, continuando nella metafora teatrale, che ‘arte’ del buon governo.
*Consigliere comunale