di Giampiero Teodorani
La questione dell’abolizione delle province è antica e crea sofferenza in chi, come noi, ha sempre creduto nella bontà della impostazione che Ugo La Malfa diede al tema fin dal 1970, in occasione della istituzione delle regioni. La Malfa è stato l’uomo politico del secondo dopoguerra il cui pensiero conserva attualità e sicuramente impressionante lungimiranza. Temi come l’esigenza di attuare una politica dei redditi, la necessità della programmazione come metodo di governo, sono oggi una drammatica necessità senza che ne sia stata compresa l’importanza. Anche l’eliminazione delle province ci viene proposta, oggi, in un quadro politico asfittico e senza cultura di governo. Non si può ridurre l’argomento a un problema di (elimina-zione?) o di contenimento dei costi, che peraltro riguarda tutti gli enti locali e territoriali del Paese. Abolirne qualcuna, si solo le piccole … magari solo quelle non governate dalla Lega. I grandi e veri costi li sosteniamo da quarant’anni, per non avere colto la novità della istituzione delle regioni e creato l’occasione per una semplificazione dello Stato, unico in Europa, ad avere quattro livelli di governo. Se allora fossero state soppresse le province certamente oggi avremmo delle regioni e dei comuni diversi. Non averlo fatto, anzi averle caricate di deleghe e di competenze regionali, spesso senza strumenti o affidando loro il ruolo di semplici passacarte verso altri, ha bloccato e inibito il processo di unione dei comuni e fatto naufragare qualsiasi ambito di governo delle aree metro-politane.
Questa incertezza del quadro istituzionale, determinata dalla miopia con cui le forze politiche hanno affrontato l’argomento, sia a livello nazionale e anche a quello locale, fa si che dobbiamo ancora assistere al dibattito sulla provincia unica, bipolare o tripolare (romagnola?); meglio il comune unico e grande, anzi grandissimo.
Altri, meglio l’area vasta (vasta quanto?) come la Romagna!
Allora facciamo la Regione (direbbe un bambino).
Un dibattito tutto “in libera uscita”senza punti di riferimento, culturale e amministrativo, con un unico obiettivo: salvare l’attuale sistema di potere, grande o piccolo che sia. In questo uniti PD, PDL, Lega. Casini, prudente e terza forza! Non si sa mai.
E se poi rimangono?
La provincia è sempre stata uno degli snodi del potere locale, una posta compensativa per l’accordo nei comuni capoluogo. Non a caso negli anni 70 e 80 quasi tutti i presidenti erano socialisti; risultato di accordi ora con la DC ora con il PCI. Sono molti gli affezionati alle province; se si esclude un breve periodo della segreteria Berlinguer, in cui parve che anche il PCI imboccasse la strada della abolizione, il “ritorno all’ordine” ha sempre caratterizzato, vanificandoli, gli sforzi di chi voleva superarle.
Basti pensare la contraddittorietà con cui la Regione Emilia Romagna affrontò, all’inizio degli anni 80, il tema dell’ente intermedio e che fu proprio Pierluigi Bersani a decretare l’abolizione dei comprensori e il rilancio delle province. La cosa buffa e tragica, in questo momento, è costituita dal fatto che lo stesso parlamento che dovrebbe procedere al varo della riforma costituzionale per determinare l’abolizione delle province, è lo stesso che negli ultimi anni ne ha create delle nuove, che si chiamano dell’Ogliastra o (sic) Medio Campitano. La provincia è come il gatto: ha sette vite. Speriamo che non sia anche come il mitico uccello, simbolo della morte e della resurrezione, dalle cui ceneri ai raggi del sole rinasceva. Credo comunque che un bel giorno l’Araba Fenice sia morta, perché non s’è più vista in giro.