Energie Nuove – NUMERO 2 – novembre 2018
La Romagna Città Metropolitana?
di Giampiero Teodorani
Vedo diversi amici impegnati a discutere sul futuro dell’assetto istituzionale della Romagna, proporre soluzioni fantasiose, anche a base di nuove alleanze amministrative per le prossime elezioni del 2019. A tale proposito mi permetto di fare alcune considerazioni di merito.
La Romagna non è un territorio metropolitano, bensì un sistema policentrico.
Quindi esattamente l’inverso di quello che si vorrebbe realizzare o di cui si auspica la costruzione.
In Italia le aree metropolitane sono tre, forse quattro (Milano, Torino, Roma, Napoli) e certamente non dieci, come prevede la Legge Delrio.
Metropoli non vuole solo dire città con molti abitanti; è sempre una agglomerazione che nasce attorno ad una città di maggiore rilevanza rispetto alle altre e non mi sembra proprio il caso delle “Romagne”, di antica memoria e definizione.
Forse chi la auspica invoca i benefici della Legge Delrio per le aree metropolitane, decisamente troppe e, chi in passato si è speso per la Regione Romagna, per superare antichi e nuovi steccati, oggi invoca l’istituzione della Metropoli Romagna; altri, nel terreno in cui sovrano è il caos istituzionale, chiedono una unica provincia romagnola, visto che il recente referendum costituzionale le ha disgraziatamente riconfermate. L’area vasta della sanità è un bel precedente!
Non mancano le invenzioni, nell’incertezza istituzionale: le unioni dei comuni, la fusione dei comuni e gli altri ambiti di gestione di alcuni servizi consortili.
Dalle nostre parti non mi sembra siano stati raggiunti grandi obiettivi, che facciano ben sperare per il futuro e per estendere queste prime esperienze all’intero ambito regionale. Fino ad ora, le unioni dei comuni hanno fatto parlare di sé per la gestione dei vigili urbani, per la gestione delle pratiche antisismiche e per un protocollo che ha appesantito gli aspetti burocratici. E’ mancata una visione strategica e progettuale da parte della Regione. Ci sono unioni di vallata, unioni di pochi comuni, altre di molti. Insomma, a volte, senza ambiti che siano giustificati e scaturiscano dalle caratteristiche socio-economiche, storiche e geografiche del territorio. Quello del cosiddetto Ente Intermedio, cioè fra comune e regione, è stato fino dagli anni settanta un punto di grande incertezza in Emilia Romagna; prima con l’istituzione dei comprensori, poi delle assemblee dei comuni e del Circondario di Rimini ed infine contrordine, con l’accettazione delle province di napoleonica memoria. Mi viene spontaneo ricordare la visione chiara e moderna dello Stato che fu espressa da Ugo La Malfa in occasione della istituzione delle regioni nel 1970, con la proposta della contestuale abolizione delle province.
Se si fosse agito in questa direzione anche le regioni avrebbero assunto caratteristiche diverse: più organi di governo e di programmazione, anziché caratterizzarsi, per la gestione burocratica e amministrativa, tipica dell’ente locale di vecchio stampo. Spesso le regioni hanno finito per caricare le province di funzioni che neppure avevano e su confini avulsi dal contesto socio-economico e storico (e invece sono diventate organo di decentramento delle regioni stesse).
Un punto centrale di questa discussione è anche il tema della fusione dei comuni; fino ad ora limitatissima nella regione e inesistente nella nostra provincia, anche solo fra due comuni confinanti. I sostenitori auspicano il superamento dei piccoli comuni, offrendo incentivi economici, anche consistenti, quasi a individuare nella piccola dimensione le ragioni di uno scarso funzionamento. Chi si oppone teme, finite le agevolazioni economiche, di diventare il “quartiere” del comune più forte e di perdere autonomia e sovranità. Non è una discussione facile in assenza di una vera riforma delle autonomie locali. Forse gli enti che potevano facilitare le fusioni fra i comuni, almeno nella parte montana, erano le comunità montane che frettolosamente sono state abolite, per legge nazionale e quindi regionale, senza pensarci molto.
Il resto è “navigazione a vista”, senza idee e progetti. La Provincia (almeno la nostra) versa in condizioni penose; basta percorrere le strade provinciali e vedere la situazione di alcune scuole superiori. Mi chiedo cosa si aspetti a modificare la Costituzione almeno nel punto in cui le prevede, e rimpiango il vecchio schema repubblicano: comune, comprensorio, regione.
Ho cercato nei 29 punti del “Contratto per il Governo del Cambiamento”, ma non ho trovato risposte e proposte; traggo la conclusione che la riforma delle autonomie locali e il funzionamento dello Stato, non è più un argomento “pagante” in questo momento.
