di Guido Piraccini
Periodicamente sentiamo ripetere dai sindacati dei lavoratori più o meno questo discorso: il reddito procapite degli italiani, e segnatamente dei lavoratori dipendenti, è nettamente inferiore a quello della maggior parte dei paesi europei più sviluppati. Di qui la richiesta di incrementi retributivi, o sotto forma di minori tasse, o sotto forma di riduzione del cuneo contributivo, o sotto forma di aumenti dei minimi contrattuali.
Questo ragionamento ha avuto, in alcune occasioni, l’autorevole avvallo della Banca d’Italia sostenendo che retribuzioni troppe basse possono esercitare effetti negativi sulla propensione al consumo e quindi sulla crescita del nostro paese. In breve, i nostri redditi sono inferiori a quelli europei non solo in termini nominali, ma anche in termini di potere d’acquisto.
Possiamo concludere, dunque, che il tenore di vita dell’Italia è più basso di quello della maggior parte dei paesi europei?
Se per tenore di vita intendiamo il potere di acquisto pro capite è senz’altro così.
Ma il potere di acquisto è solo un aspetto del tenore di vita.
Se due paesi hanno la stessa popolazione e possono acquistare lo stesso stoch di merci, ma nel primo si lavora mediamente 40 ore la settimana mentre nel secondo se ne lavorano 20, è irragionevole dire che il tenore di vita è il medesimo: il secondo paese sta molto meglio del primo perché riesce a comprare gli stessi beni e servizi lavorando la metà del tempo.
Se guardiamo le cose da questa prospettiva la condizione dell’Italia è tutt’altro che drammatica: fatto 100 il potere d’acquisto per ora lavorata dei paesi dell’Europa a 15, precediamo non solo la Spagna e la Grecia ma anche la Germania, il Regno Unito e tutti gli altri; solo la Francia sta un po’ meglio di noi.
Se poi teniamo conto non solo della quantità del lavoro erogato, ma anche della sua qualità, ossia del livello di qualificazione della forza lavoro degli occupati più istruiti, scopriamo che l’Italia sta addirittura meglio della Francia: per quanto e per come lavoriamo, il nostro potere di acquisto è addirittura eccessivo. Fatto 100 il potere d’acquisto di un’ora lavoro (reso omogeneo dal punto di vista della qualità) la Germania è a quota 92,7, il Regno Unito a 93,5, la Spagna a 99,6, la Francia a 108,3, l’Italia addirittura a 111,6.
Se infine consideriamo tutti i paesi i paesi dell’Europa a 15, ci accorgiamo che la posizione dell’Italia, messa male in termini di potere d’acquisto per abitante, (solo la Grecia e la Spagna stanno peggio di noi) diventa eccellente in termini di potere di acquisto per ora lavoro.
Sembra una riflessione un po’ paradossale, ma forse è la chiave per capire qual’è il vero male/problema del nostro paese. E’ vero che gli italiani guadagnano poco, ma è la torta complessiva che si spartiscono a essere troppo piccola. E la torta è piccola innanzitutto per due ragioni semplicissime: in Europa lavoriamo meno degli Stati Uniti e del Giappone; in Italia lavoriamo meno degli altri paesi europei e la qualità della nostra forza lavoro è fra le più basse d’Europa. Le forze sociali ed economiche, economisti e partiti politici hanno espresso la propria ricetta in merito al come recuperare questa situazione ma con scarsissimi risultati.
Perché i sindacati non provano, con uno scatto di reni, a dire e a pretendere che si smetta di addormentare il problema occupazionale attraverso la cassa integrazione e affrontare, invece, di petto il problema della mobilità, della innovazione, della produttività per ora lavorata particolarmente nella pubblica amministrazione, della liberalizzazione delle professioni; ci sono troppi posti di lavoro non contendibili, ed anche per questo i nostri giovani migliori se ne vanno all’estero in numero sempre maggiore. In tutti gli altri paesi europei, tanto meno negli Stati Uniti o in Giappone nemmeno osano pensare che si possa arrivare a concedere sette anni di cassa integrazione. Da noi è successo (per i lavoratori Alitalia) e sono certo che sarà ricordato come uno dei più gravi errori commesso dal sindacato.
Vogliamo ammettere che la nostra forza lavoro, è da un lato molto poco qualificata, e dall’altro non è disponibile nemmeno a cercare lavoro.
Per esempio, nella fascia intorno ai 25 anni, una frazione alta di persone sa per certo che non si laureerà mai ma continua a fare lo studente universitario e quindi non cerca lavoro perché può usufruire dell’ammortizzatore sociale (famigliare); quando questi (non laureati) saranno costretti a cercare lavoro non saranno consapevoli del livello di qualificazione effettivo che hanno e aspireranno ad un posto di lavoro del tutto inadeguato e irrealistico rispetto al livello di conoscenza raggiunto provocando anche una grave distorsione del mercato del lavoro e della nostra struttura produttiva, perché vuol dire che noi non riusciamo a uscire dal manifatturiero.
Un ulteriore punto di discussione è sicuramente la rigidità verso il basso delle retribuzioni e l’utilizzo del lavoro precario e temporaneo che il sindacato imputa al mondo delle imprese.
In merito ho avuto modo di leggere quanto pubblicato da Oscar Giannino; le sue considerazioni consentono di giungere a una conclusione assai utile nel dibattito in corso.
Da noi, afferma Giannino, il lavoro a tempo e precario viene più utilizzato che altrove (Stati Uniti e paesi industrializzati Europei) per colpa non dei padroni cattivi, ma del sindacato. A supporto di questa affermazione forte, fa riferimento a studi ad opera di un’equipe di economisti europei, alle prese con vecchi e nuovi problemi di occupazione per effetto della crisi. Il primo studio analizza l’elevata rigidità di aggiustamenti verso il basso delle retribuzioni in caso di crisi occupazionale- motivo di aggravamento della crisi medesima quando la domanda di lavoro si contrae- che caratterizza appunto l’UE rispetto agli USA, e dimostra come l’effetto sia più grave nei Paesi nei quali la contrattazione del lavoro è nazionale, centralizzata, e con fortissima prevalenza in tutti i settori dei salari contrattati in maniera pluriennale e rigida coi sindacati.
Il secondo studio degli stessi autori, analizza come in assenza di elasticità verso il basso delle retribuzioni le imprese in difficoltà dei diversi Paesi europei agiscano comunque per contenere i costi del lavoro, intervenendo su bonus, parte variabile del salario e soprattutto benefits.
Ma l’analisi, per certi aspetti più preoccupante, è quella prodotta dall’economista Andrea Salvatori dell’Università di Essex (il più grande campus universitario Britannico). Il Professore Salvatori afferma che nella UE, uno su sette dipendenti lavorano con contratti temporanei connessi con una retribuzione inferiore e meno formazione. Sul posto di lavoro, utilizzando i dati di 21 Paesi, risulta che quanto più un’impresa è sindacalizzata nei suoi dipendenti tanto più diventa propensa a usare il lavoro temporaneo. Il sindacato contribuisce dunque a creare dualità contrattuale nel mercato del lavoro. Limitando la capacità delle imprese di adeguare il costo del lavoro anche attraverso minori retribuzioni, in presenza di un fisco vorace sul lavoro il sindacato spinge l’impresa all’utilizzo dei precari.
Nella UE l’Italia, in questa distorsione, è in testa alla classifica.