L’alba del giorno dopo ha un sapore diverso.
Sarà perché la delusione seguita alle elezioni politiche rende ogni risultato elettorale positivo al tempo stesso più atteso e più dolce sarà perché per la prima volta dopo mesi la sinistra italiana ha evitato per l’ennesima volta di colorare le pagine dei quotidiani con il proprio indecoroso spettacolo del “è tutta colpa tua”, eppure lo svegliarsi in un Paese in cui tutte le maggiori città del nord, del centro e del sud sono governate dal Partito Democratico rende l’idea di dover condividere il governo nazionale con il PDL più sopportabile e persino più comprensibile.
Così – citando la più politica delle tragedie shakspiriane – anche per il PD, l’inverno dello scontento si è tramutato in estate ed il pallido sole di questo governo di larghe intese sembra anticipare giorni migliori anziché presagire le sconfitte ed i parricidi politici di qualche mese fa.
Miracolo della politica, dove ogni segno viene interpretato in maniera volubile e come nel mito classico di Tiresia, di fronte a tali segni ciascun militante e dirigente ci appare ora insensato cieco, ora straordinario veggente.
Segni, dunque. Segni da comprendere. Segni da interpretare. Segni che ci parlano innegabilmente di una vittoria del PD. Segni che non rispondo alla più sensata delle domande.
Quale PD ha vinto?
Il PD dei territori? quello delle larghe intese? quello del segretario Caronte? quello dei 101 franchi traditori che hanno respinto la candidatura di Prodi? quello dei non numerati ribelli che hanno affossato quella non meno degna di Marini? Il Pd nuovo di Renzi? Il PD che nella stessa città, Roma, si allea con SEL e dialoga con il M5S per le comunali e a Palazzo Chigi sceglie ob torto collo il PDL? Quello vecchio delle mille correnti e dei patti precongressuali o il PD che va avanti nonostante il PD?
Segni. Segni contradditori. Segni che lasciano il tempo che trovano e che ci inducono ancora una volta a dividerci sulle interpretazioni, in un valzer in cui ciascuno mette la propria bandierina su di un patrimonio comune e prova a far diventare “cosa propria” ciò che a nessuno può appartenere. Segni che si trasformano in “prova provata” che questa o quella leadership o corrente faccia bene al partito .
Ecco, così anche una vittoria smette di essere una vittoria ed inizia ad essere – come avrebbe detto quel grande intellettuale del nostro tempo che si chiama Andrea Pazienza- “il segno di una invincibile resa”.
Resa di una comunità, innanzitutto, all’ansia di affermazione individuale o di fazioni in lotta. Resa alle scorie di un meccanismo altamente democratico – come le primarie sono – ma al tempo stesso profondamente segregante. Resa alla logica amico/nemico che sopravvive ancora oggi dentro il nostro partito se è vero come è vero che anche la riflessione sul “PD che vorrei” (cfr. l’articolo di Bracci su questa rivista) smette di essere il luogo della riconciliazione e della sintesi per diventare lo spazio per una inconscia rivendicazione del più comune degli “avevo ragione io” .
Questa invincibile resa che viviamo si arricchisce così di giorno in giorno di sfumature nuove e di domande giuste (come quelle che pone Enzo Lattuca nel suo contributo su questa rivista) a cui nemmeno però i più prolifici dei nostri dirigenti – Lattuca compreso- hanno il coraggio di dare risposte.
Un invincibile resa che declina parole note (ad esempio il temine “riformismo” usato da Sandro Gozi nell’articolo “Fare il vero movimento di sinistra riformatrice”) con significati sempre più vaghi (cosa è riforma e cosa distingue una buona riforma da una cattiva riforma come quella di Elsa Fornero?).
L’invincibile resa di una politica che abdica al più elementare e nobile dei compiti: quello – per utilizzare le parale di Natalino Irti– di chinarci sulle macerie della storia e chiederci “quale futuro”?
Così in questo deserto dei tartari in cui da anni ormai aspettiamo qualcuno che venga ad espugnare il nostro fortino abbiamo costruito la più letale e soporifera degli habitus mentali quello di definirci e darci identità nell’ottica del “diverso da” (o se preferite del “mai con”), driblando continuamente la più scomoda e più necessaria delle domande: “quale futuro”, quale idea di società, quale sviluppo per la nostra città.
Il gioco delle leadership forti (sia essa quella ormai passata di Bersani o quella futura di Renzi) diventa così per ogni militante e dirigente il migliore degli alibi, la dimensione più proficua per rispondere alla più sensata delle domande: quale progresso?
Una domanda più complessa di quella che specularmente avremmo potuto porci in passato ed a cui occorrere dedicare molto più di un semplice sforzo individuale. Una domanda a cui non può rispondere un leader (nazionale o locale che sia) ed il suo ristretto circuito di saggi e tecnici.
Una domanda multiforme – in un mondo come quello che viviamo popolato da dimensioni globali ed interconnessioni profonde – che assume contorni tragici nello scenario di risorse limitate e che richiede l’umiltà di ribadire che solo attraverso il massimo coinvolgimento di tutti nell’elaborazione di una risposta si possa ottenere qualcosa di utile.
Come nel paradosso (tutto contemporaneo) del muratore che in epoca di grande abbondanza sa costruire da solo una casa per chiunque e, nel momento, di crisi deve chiedere aiuto ora a questo ora quel artigiano per costruire soffitti in legno che isolino dal freddo e dal caldo, impianti solari che producano l’energia senza sprechi, impianti idraulici che sia più efficienti – chiedendo cioè a ciascuno di farsi dal proprio punto di vista scienziato della casa- anche noi oggi dobbiamo comprendere che nella società che viviamo occorre la ricostruzione di una intelligenza collettiva capace di abbandonare i recinti della riflessione corporativa (quella di ciascuna categoria sul proprio futuro) e di mescolarci in una unica riflessione comune.
Forse partendo da questa premessa – da questa modo di vedere il compito assegnatoci dalla storia e dal nostro paese – riusciremo meglio a rispondere alle domande radicali che il nostro tempo ci pone.
Provare a guardare al di là della contingenza degli eventi, oltre il confine della quotidiana lotta delle fazioni contrapposte, significa innanzitutto ridare alla politica il compito di saper immaginare –ma sarebbe meglio dire di sognare – un mondo diverso.
Alcuni obietteranno che quello che oggi viviamo non è il tempo dei sogni e delle speranze: che la gravità del presente deve imporre a tutti di rimanere ancorati, giorno dopo giorno, alla concretezza dell’azione politica ed al suo essere quotidiano esercizio di forza contro forza.
Un coro di cinici forse si alzerà nel dire che è senza senso il nostro desiderio di guardare più in là dell’oggi e forse già domani la voce di chi ci richiamerà a volare basso e a rimanere con i piedi ben piantati a terra, suonerà in maniera più forte ed autorevole della nostra.
Non pochi saranno – siamo sicuri – quelli che ci dissuaderanno dall’offrire false speranze.
Eppure, quello di cui siamo certi, quello di cui non vogliamo dubitare, quello che intendiamo con questo nostro contributo far risuonare oltre ogni incertezza, è che nella lunga e dolorosa storia della nostra nazione non ci sia mai stato nulla di falso nelle speranze e nei sogni.
Forse è vero che sogni e speranze non possono guarire questo paese, ma non altrettanto può dirsi della forza di milioni di persone che si mettono in cammino per chiedere che quei sogni e quelle speranze si trasformino in realtà vivente.
Per questo quella di mettere in gioco la propria esistenza per il cambiamento di una forma di vita ormai divenuta ingiusta ed insopportabile è stata la risposta che ha portato in ogni parte del mondo uomini e donne, giovani ed anziani, impauriti e dubbiosi circa quello che possiamo ottenere dal futuro a mettere le mani sull’arco della storia e tenderlo ancora una volta verso un giorno migliore.
Ecco questo io penso dovrebbe essere il PD. Questo l’unico argine ai segni di una invincibile resa che giorno dopo giorno viviamo. |