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Il progetto “BRI”

     Dicembre 21, 2018   No Comments

Energie Nuove – NUMERO 2 – novembre 2018

Il progetto “BRI”

di Marco Marazzi – Avvocato, Presidente Easternational

Quando si parla di Belt and Road Initiative (“BRI”,conosciuta in Italia anche come “Nuove vie della Seta”) bisogna prima cercare di definire che cos’è.

Partiamo prima dal dire cosa non è, forse più semplice:

La BRI non è un nuovo piano Marshall.  A parte le dimensioni che nel caso del Piano Marshall a valori correnti sono meno del 5% di quanto previsto dalla BRI, il primo fu dedicato soprattutto alla ricostruzione di un potenziale industriale perso a causa della guerra e durò solo il tempo necessario per rimettere in piedi l’Europa occidentale.  La BRI è invece un piano a lungo termine, circa 20-30 anni, con i contorni poco definiti ma che potrebbe avere un impatto più duraturo.  Detto questo, i massicci investimenti infrastrutturali previsti dalla Cina in alcuni paesi asiatici e africani possono avere indirettamente un ruolo di volano per l’industrializzazione delle aree interessate e quindi un piccolo effetto “piano Marshall” per quei paesi.

1.La BRI non è un progetto pensato per generare opportunità economiche e commerciali all’Europa o tantomeno agli USA. E’ un progetto pensato nell’interesse precipuo della Cina. Le opportunità di carattere commerciale per aziende europee per esempio sono limitate, ma potrebbero aumentare se si negoziassero con la Cina condizioni migliori di accesso ai progetti.

2.La BRI non e’ un progetto a carattere militare. Sebbene non si possano negare fini anche di carattere geopolitico (stabilizzare le repubbliche dell’Asia Centrale confinanti con il paese, trovare nuove vie di collegamento con l’Europa che aggirino quelle controllate dagli alleati USA), fino ad ora perlomeno non c’e’alcuna intenzione di affiancare a questa espansione economica una a carattere militare. Quella avviata nel Mar Cinese Meridionale attraverso l’occupazione di isole e isolotti esiste già da tempo ed è slegata dalla BRI.

La BRI quindi, semplicemente, è un progetto di globalizzazione ad impronta cinese, che ufficialmente riguarda più di 70 paesi e comprende i più svariati progetti, non riconducibili all’interno di una sola categoria. Si va dal potenziamento dei collegamenti ferroviari merci tra Cina e Europa (più di 30 città già collegate, con Duisburg e Lodz lato europeo e Chongqing e Chengdu lato cinese snodi principali), all’acquisizione o ampliamento di porti in Asia Meridionale (Pakistan, Sri Lanka) e in Medio Oriente, alla costruzione di centrali elettriche in India, Pakistan e Indonesia. Ma anche la ferrovia Nairobi-Mombasa, un parco industriale ad Abu Dhabi, o l’investimento in un’universita’ in Cambogia.  La caratteristica comune a questa “avanzata” è il mix di investimento statale e privato: il grosso delle opere sono infatti finanziate dalle tre principali “policy banks” cinesi, che richiedono un “contenuto” minimo cinese nelle forniture che a volte può arrivare al 75-80%. Alle policy banks cinesi si affiancano istituzioni multilaterali come la Asia Infrastructure Investment Bank, di base a Pechino, e banche locali.  Lato imprenditoriale, i primi beneficiari del progetto sono quindi ovviamente le aziende cinesi soprattutto a proprietà statale (che comprende sia quelle sotto il controllo del governo centrale che dei governi locali).  In secondo luogo, le aziende private cinesi che seguono a ruota gli investimenti statali per sviluppare poi i loro brand nel paese in questione: dalle telecomunicazioni (Huawei, Oppo e Xiaomi in prima linea) all’immobiliare (Country Garden) ai prodotti di consumo.  Infine, le aziende locali che entrano in partnership con le aziende cinesi nei vari paesi coinvolti.  Solo marginalmente quindi è un progetto che, lato benefici economici diretti, riguarda le aziende europee. Ovviamente, se c’è bisogno di una fornitura di turbine elettriche in Indonesia o di sistemi per la segnaletica ferroviaria in Serbia a fronte di investimenti cinesi legati a BRI è ben possibile che l’occasionale gruppo italiano o francese possano inserirsi come fornitore dell’appaltatore principale o subappaltatore locale.   Ma questo è tutto.

Sono infatti pochissimi gli investimenti relativi alla BRI in Europa: il porto del Pireo, controllato da COSCO, quello di Vado Ligure, la ferrovia Belgrado-Budapest sono esempi di investimenti legati alla strategia BRI in territorio UE.  Se si va oltre la UE però l’attivismo cinese è molto più pronunciato per esempio nei Balcani.

Le opportunità per le aziende europee risiedono invece nel prevedibile incremento di commerci tra Cina ed Europa, ma anche tra Cina, Europa e i paesi interessati da quei progetti infrastrutturali che hanno più capacità di fungere da volano economico.  Per esempio, le repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale oppure l’Asia Meridionale e l’Africa orientale.  Il rischio maggiore tuttavia è che la fetta principale della crescita dei commerci bilaterali in questi paesi, oltre quella degli investimenti infrastrutturali, la prendano di nuovo le aziende cinesi.  Le statistiche ci indicano che il commercio tra Cina e questi paesi è aumentato significativamente negli ultimi 3-4 anni e che l’Europa nel complesso tiene ancora il passo, ma non si a quanto a lungo.

Se le aziende europee dovessero perdere significativamente quote di mercato in questi paesi, al rischio commerciale si accompagnerebbe anche uno geopolitico, visto che tradizionalmente i paesi europei non hanno una forte presenza militare all’estero che gli consentirebbe di sopperire alla perdita di influenza economico-commerciale.  Anche Francia e Regno Unito arrancano da questo punto di vista.

Esistono ovviamente varie opzioni strategiche per l’Europa per assicurare che le opportunità derivanti dalla BRI eguaglino perlomeno i rischi.  La UE ha da tempo creato varie piattaforme di dialogo con la Cina, che è l’attore principale nei progetti BRI, inclusa la EU-China Connectivity Platform che coordina i progetti infrastrutturali cinesi in Europa con quelli previsti dai piani TEN-T. La UE sta anche negoziando da tempo un accordo bilaterale sugli investimenti con la Cina che dovrebbe aprire vari settori all’investimento diretto delle aziende europee e preme per l’ingresso della Cina nel Government Procurement Agreement del WTO. In un’azione quasi senza precedenti, inoltre, nel giugno scorso tutti gli ambasciatori europei in Cina (tranne quello ungherese!) hanno espresso in una lettera al governo cinese preoccupazione sulle modalità in cui i progetti BRI sono decisi e assegnati in assenza di trasparenza.   Esistono dei rompiscatole però all’interno dell’UE, ovvero paesi che sono tentati dall’andare “da soli” nei rapporti con la Cina per accaparrarsi promessi investimenti che poi magari fanno fatica a materializzarsi. L’Ungheria in primis e poi anche la Polonia, e in generale i paesi dell’Europa dell’Est.  La convinzione di tutti questi paesi è di riuscire a spuntare condizioni migliori o preferenziali nei rapporti con la Cina, anche sui progetti BRI.  Convinzione appunto che resta allo stato dei fatti una pia illusione.  L’altro interlocutore ovviamente, non fa niente per contraddirla e anzi felicemente accoglie queste “advances” promettendo “trattamento speciale” più o meno a chiunque lo chieda.

Ma c’è di peggio. Se le recenti dichiarazioni del governo italiano, dal ministro Di Maio al sottosegretario al MISE Geraci su una prossima firma di un MOU con la Cina sono vere, pare che a questi “ribelli” che indeboliscono un fronte negoziale fino a poco tempo fa compatto, si aggiungerà presto anche l’Italia. Sarebbe una mossa strategica azzardata e controproducente.  Spero ancora quindi che il governo italiano rinsavisca e torni ad adottare una strategia coordinata con la UE nei rapporti sulla Cina anche e specialmente sulla BRI.

(Per chi volesse approfondire questi temi, ne parlo a lungo nel mio ultimo libro “Intervista sulla Cina. Come competere con la nuova superpotenza globale” (Gangemi Editori)

 

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