Energie Nuove – NUMERO 1 – aprile – maggio 2018
Il partito che non c’è
di Enrico Cisnetto – Editorialista, direttore Terza Repubblica
Dal risultato elettorale del 4 marzo non è certo nata la Terza Repubblica. Piuttosto, dopo il voto del 2013, che aveva già dato i natali ad uno schema tripolare, è stata definitivamente consacrata la vittoria dei populisti. Perché, seppur in modo diverso, lo sono tutte e tre le maggiori forze presenti in parlamento, che hanno dato quindi vita ad un tripolarismo populista. Lo è il Movimento 5 Stelle, pur nella veste istituzionale che si presenta con la faccia e l’abito blu di Luigi Di Maio. Lo è senza dubbio il centrodestra, tanto più se guidato da Matteo Salvini. E lo è anche il Pd, egemonizzato dal populismo “light” di Matteo Renzi, che dopo aver inseguito i grillini sul loro terreno, ha prima costruito le liste dei candidati a sua immagine e somiglianza, poi ha imposto il dominio sui gruppi parlamentari e, infine, di fronte alla sconfitta elettorale, ha deciso di scimmiottare ancora una volta i pentastellati, dicendo che i cittadini avevano messo il Pd all’opposizione (falso sia costituzionalmente che logicamente) e, di fatto, portandosi fanciullescamente il pallone a casa dopo aver perso di brutto la partita.
Ma le elezioni del 4 marzo non ci dicono solo quello che c’è, ma anche e soprattutto quello che manca, evidenziando l’assenza di un partito, quel “partito che non c’è” che sarebbe oltremodo necessario sia per rompere il tridente populista oggi egemone sia per rafforzare la dialettica parlamentare, ma anche per frenare l’astensionismo e per restituire dignità, rappresentanza e visione strategica a quei tanti italiani “non allineati”, e spesso “astensionisti consapevoli”, che non vogliono abbandonarsi alla logica del “tanto peggio, tanto meglio”, che non si illudono di fronte alle facili soluzioni, alle narrazioni da social, alle semplificazioni mediatiche. Infatti, non c’è dubbio che oggi debba nascere un soggetto nuovo ed estraneo proprio al “tripolarismo populista” imperante, un partito che possa essere metronomo e ago della bilancia dello scacchiere politico.
Il bipolarismo imperniato su centrodestra e centrosinistra è ormai morto e sepolto. Per fortuna, considerato che per vent’anni le coalizioni sono state costruite solo per vincere, ma mai per governare. A sinistra si mettevano insieme dai comunisti ai moderati come Mastella e Dini, tutti uniti dall’unico collante dell’anti-berlusconismo. A destra, l’alleanza andava dai secessionisti di Bossi ai nazionalisti ex missini, fino ai fascisti di Casa Pound. Tenuti uniti dal ruolo padronale di Berlusconi, almeno fino a quando via via lo si contestava (Follini, Casini, Fini, ecc.). Uno schema politico che ha paralizzato il sistema istituzionale e impedito di prendere quelle decisioni radicali di cui il Paese aveva (e ha) tanto bisogno.
Ecco, in queste ultime elezioni alcune forze “minori” hanno commesso l’esiziale errore di pensare di potersi ritagliare uno spazio all’interno delle due coalizioni. Che, di fatto, erano l’ultimo colpo di coda di schieramenti trapassati. Da una parte, “Più Europa”, la forza guidata da Emma Bonino, ha deciso di entrare apparentarsi con il Pd pur di assicurarsi qualche seggio sicuro in Parlamento. A conti fatti, solo tre, perché quella scelta non è stata premiata dagli elettori, tanto che non è stato raggiunto il quorum del 3%. Così, per paura di ritrovarsi ad essere testimonianza nelle urne, la Bonino si è ritrovata a svolgere un ruolo di mera testimonianza in Parlamento, e quindi nello scacchiere politico. Dall’altra c’è l’esempio di Stefano Parisi. L’ex candidato sindaco di Milano era partito lancia in resta con l’idea di svecchiare la politica, boicottando ogni accordo con chiunque fosse stato al governo, creando una serie di comitati sul territorio, stipulando accordi con organizzazioni professionali e di categoria, provando a scrivere un programma economico di centrodestra innovativo. E poi, invece, ha rinunciato e si è ritrovato a fare il candidato perdente del centrodestra per la Regione Lazio. Eppure, tanto per la Bonino quanto per Parisi, gli esempi di successo non mancavano: la stessa leader radicale nel 1999 prese l’8,5% alle europee per il solo fatto di essere “terza”, mentre “Energie per l’Italia” avrebbe potuto imitare Mario Monti e la sua “Scelta Civica”, che prese il 10% nel 2013. Niente, ha prevalso la mancanza di coraggio politico.
Il punto è che l’auspicato e quanto mai necessario “partito che non c’è” deve essere una forza centrale, ma non centrista, e del tutto autonoma, non una stampella del centro-destra o del centro-sinistra. Il passato dimostra che lo spazio c’è. E lo dimostrano anche le storie oltreconfine. Emmanuel Macron, con la sua neonata, autonoma e centrista “En Marche”, ha prima vinto le presidenziali, poi le legislative e adesso guida la Francia alla rinegoziazione dei trattati europei. In Spagna bisogna ricordare il successo dei ciudadanos, ma anche di Podemos (anche se più estremista). In Germania, l’avvento di Schulz come leader “nuovo” della Spd aveva dato nuovo vigore ai socialisti, mentre poi l’Afd a destra ha raggiunto il suo maggior successo coprendo uno spazio lasciato vuoto.
In Italia “il partito che non c’è” non c’è stato nelle urne, nella campagna elettorale e nemmeno nelle convulse settimane successive. Eppure, una nuova offerta politica avrebbe fermato l’emorragia astensionistica. O, in ogni caso, l’atteggiamento di molti italiani che sono andati a votare “turandosi il naso”. Non sono state, infatti, le liste satellite a indurre gli italiani sfiduciati e per questo intenzionati a rimanere a casa, a recarsi alle urne il 4 marzo. Inoltre, se si fosse presentata una forza liberaldemocratica, riformatrice, europeista, laica ma non laicista, centrale nella geografica politica, non perché centrista, ma perché strategica, capace, collocandosi al centro dello scacchiere politico, di scompaginarlo, imponendo nuove regole e nuove istituzioni, oggi avremmo di fronte a noi un’altra legislatura. Una quota di parlamentari piccola, ma “pesante”, infatti, sarebbe stata determinante ai fini della formazione della maggioranza, perché avremmo avuto un gruppo parlamentare in grado di condizionare prima la nascita del governo e poi le scelte politico-programmatiche. Soprattutto, una tale realtà avrebbe gettato benzina sul fuoco della benefica disgregazione non solo delle alleanze, ma delle stesse forze politiche che si sono presentate alle elezioni del 4 marzo scorso. E che saranno profondamente diverse da quelle che concorreranno alle elezioni europee il 26 maggio 2019. Oltretutto, azzardo anche la scommessa per cui in quella data non torneremo al voto solo per rinnovare il parlamento di Bruxelles, ma anche quello italiano. Ed è proprio per quell’appuntamento che bisogna costruire il “partito che non c’è”.