di Federico Bracci
Probabilmente neanche il più pessimista dei militanti del centrosinistra si sarebbe aspettato un epilogo così catastrofico. Il “Romanzo Qui-rinale”, ultimo capolavoro di una collana ventennale di avventure politiche dallo scar-sissimo successo firmato nomenklatura PD, si chiude e-sattamente come era co-minciato, cioè con gli storici protagonisti che si dedicano per l’ultima volta alla pratica del loro sport preferito: dopo aver perso le elezioni come da consuetudine, decidono di far cadere di nuovo il buon vecchio Prodi. Solo che il povero (e)lettore del centrosinistra probabilmente si aspettava un finale un po’ diverso. Probabilmente, non ancora ripresosi dall’ennesima sconfitta elettorale, prima di alzare bandiera bianca, si aspettava che almeno di fronte alla presentazione del “padre nobile” dell’Ulivo vi fosse unanime consenso all’interno delle fila dei democratici. Ma non sia mai che vada tutto come deve andare, o meglio, come gli elettori vorreb-bero che andasse; e allora ecco le menti sopraffine, i cosiddetti e-sperti di cui il partito non può fare a meno, mettere in scena il meglio del loro repertorio. A fare da con-torno a questo spettacolo straziante le grida dei grillini e le risate di Berlusconi, che dalle tribune guar-davano il PD tirare fuori l’ultimo calcio di rigore della partita, che poteva significare il gol della bandiera e dell’onore e che invece è l’errore che getta al vento le ultime speranze. Le scene delle tessere strappate e bruciate e delle sedi occupate sono un’immagine che si farà fatica a dimenticare, e passerà alla storia come la fine di un’era. Questi dirigenti hanno ucciso il PD. Gli stessi che quando parlavamo di rottamazione si erano scandalizzati, e che non si erano resi conto che fuori dal palazzo la gente utilizza espressioni un po’ più colorite. Talmente lontani dalla mente delle persone comuni da mostrare quasi sfrontatezza nell’inanellare una serie di decisioni una più impopolare dell’altra, accompagnate da commenti a dir poco imbarazzanti (Finocchiaro: “chi sono questi signori?”). Ho maturato una mia personale idea su questa elezione del Presidente della Repubblica. Sono fermamente convinto Franco Marini fosse un nome da non prendere assolutamente in considerazione, non solo per la sua lontananza dal sentore popolare; basta il fatto che, come lui stesso ha ammesso, prese parte all’inciucio che fece cadere il primo governo Prodi e che portò D’Alema alla Presidenza del Consiglio (paghiamo ancora i danni di quello scellerato evento ). Inutile invece ribadire tutta la mia stima per un uomo come Romano Prodi. Da elettore del centrosinistra dico che sarebbe stato il nome migliore. Temo però che Berlusconi avrebbe riempito le piazze gridando al golpe vista l’occupazione totale delle cariche da parte della sinistra, recuperando consensi tra i suoi. E lo stesso discorso vale per Rodotà, sui cui libri ho studiato la tutela dei diritti. Perciò sinceramente se fossi stato un dirigente del Partito Democratico, vista la poca forza a disposizione in un momento del genere, avrei proposto sin dall’inizio il nome di Anna Maria Cancellieri e spiego perché: grande servitrice dello Stato, miglior sindaco di Bologna degli ultimi anni (pur essendo un prefetto), ha svolto bene il ruolo di Ministro dell’Interno. Sarebbe stato un nome sotto tutti i punti di vista super partes che nessuno avrebbe potuto tirare per la giacchetta; un nome di fronte al quale nessuno avrebbe avuto alcuna valida motivazione per dire no. Un nome che sarebbe potuto divenire il primo Presidente donna delle nostra storia. Penso che se avessimo avuto una simile intuizione sin dall’inizio, a quest’ora saremmo stati ripagati in termini di sondaggi (senza contare che non ci sarebbe stato bisogno di sei votazioni e di tutto il tempo che si è perso). Archiviato il discorso Presidente della Repubblica, ora l’attenzione si sposta sul PD. Ormai non si trova più nessuno che non sia convinto che una buona e sana rottamazione sia la cosa più urgente, e questa è una cosa positiva. Ma il disastro a cui siamo arrivati parte da lontano, non è frutto delle ultime ore. E’ figlio di una classe dirigente che non ha mai convintamente creduto nel Partito Democratico, che lo ha vissuto come un’ “americanata” iniziale. Una classe dirigente che ha tradito lo spirito originario del progetto perché non ha mai creduto veramente nei suoi principi fondanti. Il PD è nato (già tardi forse) per allargare l’orizzonte della sinistra italiana con l’ambizione di conquistare anche elettori un tempo distanti ma che ora non hanno più motivo per esserlo. E’ nato per rivolgersi ai ventenni come me, che vivono la realtà di oggi con lo sguardo proiettato verso il futuro e che non guardano con nostalgia ad un idilliaco passato morto e sepolto. E’ nato per tutta quella gente che si rende conto che il mondo è cambiato e cambia alla velocità della luce, e che quindi non ha senso spolverare quelle “gustose ricette d’altri tempi” (cit. Enrico Sola ). Un partito sfacciatamente riformista. Ed essere riformisti vuol dire accettare la realtà per quella che è, ovviamente cercando di cambiarla in meglio, ma senza pensare di vivere su Marte. Per fare ciò è essenziale filtrare e liberare i nostri valori da una gabbia di tradizioni e dogmi superati: non si tratta di cambiarli, anzi, bisogna impedire che sprofondino sotto il peso di questi ultimi. Come diceva Tony Blair “separare concettualmente l’impegno a mantenere i nostri valori (eterno) dalla loro applicabilità (legata al momento)”. Il centrosinistra ha perso proprio per questo, perché ha avuto paura ed ha rifiutato il confronto con la realtà, preferendo chiudersi a guscio nelle proprie liturgie ripetendo quei vecchi e stanchi ritornelli che vanno avanti ormai solo per inerzia.
Bisogna definitivamente liberarsi dai cliché, per cui a volte sembra che una certa sinistra si scandalizzi di più se un politico va ad “Amici” piuttosto che per ciò che è avvenuto col Monte dei Paschi di Siena.
Che tristezza vedere finti intellettuali a cui piace parlare solo al proprio ombelico, criticare un sindaco che partecipa come ospite ad un talent-show per raccontare la bellezza del fare politica davanti ad un pubblico di milioni di giovani che seguono il programma; ragazzi a cui probabilmente non è mai interessato nulla di politica (non tanto per col-pa loro dico io) e che sentendolo parlare hanno ap-prezzato l’au-tenticità e la pas-sione di chi le co-se le fa col cuore, e magari da quel-la sera hanno co-minciato a guar-dare l’impegno politico con altri occhi.
Il risultato Il risultato di questa lontanan-za dal mondo di oggi è stato che non solo non si è allargato il baci-no di voti, ma se ne sono addirit-tura persi a ca-mionate anche tra gli storici elet-tori.
Oltre al danno la beffa. E non sono gli italiani che non ci hanno ca-pito, sono i di-scorsi che abbia-mo fatto che non sono accordati nella tonalità in cui vive e si esprime la gente oggi: non ci si può presentare alle elezioni e su un tema centrale come il lavoro dire semplicemente “daremo un po’ più di diritti”… Chi veramente oggi soffre più di altri la crisi, i più deboli, coloro che sono messi all’angolo, i giovani precari, i disoccupati, il piccolo imprenditore che ha dovuto chiudere la sua azienda ed è rimasto per strada con tutta la famiglia a carico, il lavoratore subordinato e l’operaio mediamente non hanno votato i partiti tradizionali della sinistra. Questo è certificato da studi. Cosa vuol dire tutto ciò se non che la sinistra in Italia ha fallito il suo compito storico di tutela dei più bisognosi? La delusione più grande penso che sia proprio questa, il fatto di realizzare che il cambiamento non è avvenuto proprio perché a sinistra c’era un intoppo gigante. Però un paese come il nostro ha tremendamente bisogno della svolta.
L’Italia deve liberarsi di tutti quei funzionari e burocrati che, mentre lei risparmiava e creava una delle ricchezze private più alte, hanno speso e sprecato anche ciò che non avevano.
Per fare questo, per tornare a respirare a pieni polmoni, c’è assolutamente bisogno del PD. Quello vero.
Il PD deve diventare finalmente sé stesso, e deve farlo impadronendosi oggi più che mai anche di parole come “ambizione” e “merito” che sono nelle sue corde e non possono essere lasciate passivamente agli avversari.
La realizzazione piena del potenziale dell’individuo nella comunità odierna passa anche da questo. Il concetto di meritocrazia va applicato comin-ciando proprio dalla politica, dove invece oggi si tende a premia-re più la fedeltà e l’obbedienza piuttosto che le idee, le compe-tenze e l’entusia-smo, avvantag-giando magari chi ha il solo me-rito di aver distri-buito migliaia di volantini in piaz-za rispetto a chi la realtà la sa interpretare dav-vero. Per chiu-dere dico anche che un grande partito se è serio, non può non af-frontare il tema della leadership. Tutti i grandi par-titi mondiali san-no che è un tema che non può esser accantonato, e se oggi siamo deva-stati da correnti e correntine è perché si è voluto mettere in un angolo il problema, come ha detto di recente Dario Nardella.
Ma non ho perso di certo la speranza quando guardo avanti. Oggi il centrosinistra ha un grande tesoro, che ha un nome ed un cognome e delle idee che trovano un consenso larghissimo nel paese.
Aldo Cazzullo di recente ha scritto: “se gli italiani vogliono Renzi prima o poi lo avranno”.
Intanto l’università americana “John Hopkins” di Bologna ha chiamato a tenere il discorso di chiusura dell’anno accademico il prossimo 25 maggio proprio Matteo Renzi.
Anche gli americani hanno capito chi rappresenta il futuro del nostro paese.