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Il “male oscuro” dell’economia

     Giugno 27, 2017   No Comments

di Enrico Brunazzi

Sugli organi distampa  trovano spazio numerosemanifestazioni di cauto ottimismo  daparte di autorevoli economisti ed operatori economici in merito all’esito dellalunga crisi economica, ipotizzando che alla fine del 2015 ripartirà una faseespansiva che interesserà anche, in modo rilevante, la realtà economicaprovinciale. Il rischio, a mio parere, è che la crisi diventi un’alibi per nonaffrontare ed incidere sul “male oscuro” dell’economia nazionale ed anchelocale.

Quando si parla dicrescita non si può dimenticare quali ne siano le fonti principali: l’aumentodella popolazione e quello della produttività. Ed in particolare, per un paesecome l’Italia, caratterizzato da una modesta crescita della popolazionedipendente soltanto dall’immigrazione, non è possibile ipotizzare una crescitaduratura senza una crescita della produttività. Analoghe considerazioni possonovalere per la realtà locale dove, sulla base dei dati forniti dalla Camera diCommercio di Forlì-Cesena nel rapporto sull’economia della Provincia 2013, ilsaldo naturale demografico continua ad essere negativo e la crescita modestadella popolazione provinciale è causata dall’effetto del saldo migratorio(seppur in flessione).

Come ogni indicatoremacro-economico la produttività si presta ad interpretazioni non univoche e adapprossimazioni nella sua misurazione e, tuttavia, si può prendere ariferimento la “Produttività Totale dei Fattori (lavoro e capitale)” comeriferimento, almeno in confronto ad altri paesi.

Dalla metà degli anni 90l’Italia ha smarrito la via della crescita della produttività e, a partire dal2003 ha intrapreso un declino non riscontrabile in nessuno degli altri paesioggetto del confronto.

Le spiegazioni fornitesono in genere legate a variabili macro-economiche. Tralasciando ipotesi pocodiffuse e rigorose che ne imputano la causa al costo del lavoro ed allascarsità di capitale, le motivazioni più convincenti si riferiscono a tre aree.

Investimenti in settori che generano strutturalmente minorevalore aggiunto.

E’ certamente vero chein Italia il peso dei segmenti manifatturieri tradizionali è più elevato che inaltri paesi ed anche la realtà provinciale si caratterizza per la consistenzadi segmenti maturi (le confezioni, le calzature, i mobili, il legno), ma è anchevero che tale elemento può essere controbilanciato dalla presenza di numeroseimprese di nicchia che producono ed esportano beni di lusso o di elevatasofisticazione tecnologica. Lo stesso ragionamento può essere riferito alsettore terziario al quale vengono imputati forti ritardi riferibili aisegmenti tradizionali (commercio, pubblica amministrazione e utilities), ma checonta anche di imprese fortemente innovative.

In realtà i settori chegenerano maggiore valore aggiunto sono quelli che incorporano con maggiorevelocità i risultati delle ricerche tecnologiche e quelli che si trasformanoper l’emergere di nuovi modelli di business. La vera domanda è: perché icapitali si indirizzano verso settori poco redditizi rispetto ad altre realtàterritoriali? Pare fuori luogo ipotizzare che la causa sia riferibileall’illusione statalista di necessità di “politiche industriali”, stante lalentezza dell’apparato pubblico rispetto alla velocità dei mercati.

Alcuni ritengono che lacausa sia rinvenibile negli scarsi investimenti in ricerca pubblica e privata.Colpa di chi? Delle Università? Non sono sicuro che sia la vera causa, anche inconsiderazione del fatto che molti ricercatori italiani ottengono ottimirisultati all’estero ed, in ogni caso, esiste un know-how disponibile, ancheall’estero, che potrebbe essere incorporato nelle produzioni locali.

Nel caso del cambiamentodel modello di business, l’iniziativa parte quasi sempre da una grande aziendao da una nuova azienda in forte crescita.

Parrebbe pertanto che lapiccola dimensione che caratterizza le aziende italiane e locali e la scarsapropensione alla crescita dimensionale possa costituire un indizio rilevante.

Scarsi investimenti in ICT.

Molti studiosi ritengonoche i maggiori incrementi di produttività sono stati ottenuti mediante laconsistente introduzione di tecnologie informatiche. Le statistiche disponibilievidenziano in Italia una caduta degli investimenti in ICT  dal 2001 aggravata da fatto che, rispetto adaltri paesi, non si è assistito al picco di tale tipo di investimenti nelquinquiennio precedente. Rimane da spiegare la ragione. In assenza di limitialla circolazione di hardware e software, forse anche in questo caso varicercata nella prevalenza di imprese di piccole dimensioni nelle quali è piùlenta e difficile la penetrazione di nuove tecnologie.

Le piccole dimensioni.

La terza ragione èriferita direttamente alle dimensioni delle imprese.

In Italia ladistribuzione dell’occupazione è fortemente sbilanciata verso le piccoleimprese e parrebbe che siano proprio le piccole imprese la fonte della crisi diproduttività, dal quale emergerebbe che, sia con riferimento ai compartimanifatturieri, che a quelli di servizi, la produttività delle aziende italianedi piccole dimensioni è molto inferiore, mentre sarebbe superiore quella dellegrandi imprese.

Si ritiene che le causedel calo della produttività delle piccole imprese siano da ricercare nellaprofonda trasformazione dell’economia dei paesi industrializzati avvenuta nelcorso degli anni 80, favorita dalla crescente circolazione di merci, persone ecapitali. La piccola impresa reagisce rinnovando i macchinari e producendonuovi prodotti, ma, nel frattempo, aumentano le regole e gli adempimenti e devecomunque ricorrere a professionalità esterne esperte in diversi settori.Aumentano i dipendenti non direttamente impegnati nella produzione, aumentano icosti per collaboratori e consulenti autonomi. Si ritardano gli investimenti inICT i cui costi non sono spesso proporzionali alla dimensione. La produttivitàdella piccola impresa progressivamente si erode e spesso diminuisce.

Le dinamiche descritteavrebbero dovuto condurre al consolidamento delle imprese più grandi,all’aggregazione di quelle medie ed alla forte riduzione di quelle piccole. Seciò non è stato, lo si deve, probabilmente, al fatto che le scelteimprenditoriali sono state spesso dettate da variabili “sociali” e non (solo)dalla ricerca della produttività, in tal modo distruggendo risorse nellaresistenza al cambiamento.

La piccola impresamanifatturiera si è in gran parte allontanata dal mercato finale concentrandosiin attività specifiche, spesso in sub-fornitura, invece di investire incompetenze; spesso l’imprenditore che si è fatto da solo, non accetta diperdere, almeno parzialmente, il controllo dell’impresa ed a condividere ilpotere decisionale.  Anche a livellolocale, chi opera nel settore economico ha avuto modo di riscontrare come taleelemento abbia condizionato la maggior parte dei tentativi di aggregazione traimprese operanti nel territorio, la cui mancata realizzazione ha condotto, inalcuni casi, al drastico ridimensionamento di comparti produttivicaratterizzanti il territorio (emblematico è il caso del comparto dellefurgonature isotermiche).

Il piccolo commercioriduce i volumi, i ricavi ed i margini e lo stesso avviene per molteprofessionalità del terziario. La chiusura dell’attività comporterebbe, conogni probabilità, il trasferimento della residenza, difficilmente realizzabilein realtà caratterizzate da una diffusa proprietà dell’abitazione e dallascarsa propensione ad abbandonare ambienti e tradizionali stili di vita.

Pertanto si assiste  paradossalmente alla sopravvivenza dinumerosissime aziende di piccole dimensioni e di lavoratori autonomi cherendono il mercato iper-segmentato e rispondono, frequentemente, alla sola esigenzadi garantire un reddito famigliare (spesso soddisfacente)  ed uno status sociale, ma nulla hanno a chefare con la produttività. Significativa, in tal senso, appare la circostanzache la Provincia di Forlì-Cesena, registra un rapporto tra abitanti ed impreseattive pari ad un’impresa ogni 10,1 abitanti, come risulta dal Rapportosull’economia della Provincia di Forlì-Cesena 2013 elaborato dalla Camera diCommercio.

Queste riflessioni nonhanno nessuna pretesa di riassumere in maniera scientifica analisi economicheparticolarmente complesse sul tema della produttività, ma solo fornire alcunielementi di discussione per analizzare le cause di un fenomeno ed approfondireuna riflessione sulle piccole imprese (ha ancora un senso parlare genericamentedi PMI?), nella consapevolezza che senza recupero di competitività non restache la decrescita (infelice).

  •   Published On : 6 anni ago on Giugno 27, 2017
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  •   Last Updated : Giugno 27, 2017 @ 10:01 am
  •   In The Categories Of : Politica Nazionale

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