di Federico Bracci
Dall’ultima volta in cui ho scritto in questa rivista ad oggi molte cose sono cambiate. Diciamo che con l’elezione di Matteo Renzi a segretario del PD la notte dell’8 dicembre in un vero e proprio plebiscito, il mondo della politica ha ricevuto una scossa potente che in poco più di un mese ha modificato profondamente i ritmi a cui eravamo da anni abituati, facendoli diventare molto più veloci. Anche l’agenda politica è stata radicalmente travolta, e il Partito Democratico è entrato a gamba tesa in fase di regia, arrivando addirittura alla realizzazione di una bozza di accordo su una nuova legge elettorale, progetto che sembrava ormai destinato ad arenarsi per sempre vista la mancanza di volontà di cambiamento degli altri leader, Grillo compreso. Legge elettorale che, indipendentemente da come la si pensi a riguardo, è un po’ la controprova di questa accelerata improvvisa, e citando Michele Serra su Repubblica “non serve essere renziani o antirenziani per cogliere, se l’Italcum va in porto, il nocciolo della questione: ci ha messo un mese a fare quello che gli altri non sono riusciti a fare in cinque o sei anni”. Oltre alla questione delle regole per la competizione elettorale il dibattito di queste ultime settimane è stato incentrato sull’ormai famoso Jobs Act (il piano per la riforma del mercato del lavoro) e sui diritti civili, mentre già è pronto anche il progetto sulla scuola. Non ho intenzione in questa sede di fare l’apologia di queste proposte che pure condivido fortemente, e mi astengo da giudizi sul merito che in altre occasioni ho espresso; al di là delle opinioni di ciascuno su questi importanti temi, mi piace poter pensare che la politica italiana in quest’ultimo mese sia diventata un po’ più europea, e quindi più moderna. Mi piace pensare che questa politica possa finalmente viaggiare alla velocità con cui camminano oggi le nuove generazioni, che possa prendere decisioni e programmare il futuro con la stessa rapidità di altre democrazie moderne ed evolute capaci di stare al passo con le esigenze sempre nuove di una società in continua evoluzione. Anche nel nostro territorio questa necessità di un radicale cambio di passo e voglia di cambiamento è stata espressa a gran voce da quell’ 80% di elettori delle primarie che a Cesena hanno scelto Matteo Renzi come segretario (risultato migliore di tutta l’Emilia Romagna). L’esperienza dei comitati a sostegno del Sindaco di Firenze è stata esaltante e questo impressionante risultato, che ottenuto nella “regione rossa” assume un significato ancora maggiore, ci regala oggi un Partito Democratico arricchito dalla presenza di energie davvero nuove che molto probabilmente, senza questa avventura, non si sarebbero avvicinate alla politica con tanto impegno e passione. Ma il processo di riforma del PD non si è certamente esaurito con questa fase, e ancora forti sono le resistenze ed i conservatorismi. Quello che in diversi si chiedono è come riuscire a segnare questo cambiamento anche in una regione dove la tradizione di governo emiliano-romagnola ha sì ottenuto risultati importanti in passato, ma oggi non si presenta più così solida come un tempo e capace di farsi interprete di bisogni che sono cambiati perché a cambiare è stata la società nel suo insieme (e penso che anche il più sfegatato sostenitore di Vasco Errani lo possa ammettere)? Una nuova classe dirigente dovrà sicuramente prendere il posto di quello che è stato definito il “tortello magico”, e si tratterà di un cambio generazionale e di un passaggio di consegne che dovrà però avvenire a partire innanzitutto dalle tante figure di validi amministratori sparsi nei livelli locali e non andando a scavare tra le nomenklature di partito. Indispensabile sarà poi l’abbattimento di quelle prassi e di quelle liturgie che lo stesso segretario PD sta combattendo ad altri livelli, e che sono state in questi anni letali per la riuscita del progetto democratico. Da una parte vi è sicuramente un conservatorismo di matrice post-comunista che sempre ha mal digerito il vedere alla guida del Partito chiunque non provenisse da quella (e solo quella) tradizione originaria o non avesse intrapreso una certa gavetta prima di diventare dirigente; e dall’altra un tatticismo di derivazione democristiana, ben rappresentato spesso da membri dell’attuale governo, che tenta in tutti i modi di paralizzare chi non rispetta i lunghi tempi della politica stile Prima Repubblica. La sfida sta nel saper andare oltre e superare queste resistenze di apparato che ancora esistono, e non si tratta di una battaglia che riguarda solo Matteo Renzi a livello nazionale, che oltretutto la sta vincendo creando un partito nuovo nei contenuti e nel linguaggio, ma riguarda anche le nostre realtà ed è la sfida di tutte le persone che hanno sempre creduto che fosse possibile anche in Italia creare lo spazio per un grande partito di sinistra liberale e riformista in costante sintonia con l’evoluzione dei tempi. Bisogna ripensare anche una nuova sintonia con un settore fondamentale e vitale come quello dell’impresa, troppo distante storicamente e negli ultimi anni da noi secondo diversi sondaggi, ma che proprio in Emilia Romagna ha nel tempo trovato un terreno molto fertile. In quest’ottica l’impresa deve diventare per noi il punto di riferimento, a lei vanno rivolte le principali attenzioni. Se siamo finalmente tutti convinti che da essa dipendano le sorti della ripresa economica dei nostri territori, bisogna metterla nelle condizioni di creare investimenti e di poter operare al meglio, alla luce di una competizione sempre più globale che ha causato una metamorfosi anche nel nostro sistema di distretti regionale. I tanti imprenditori che resistono con tenacia a questa crisi, cercando di creare posti di lavoro e ricchezza nonostante uno Stato che fa di tutto ancora per non liberarli dalle maglie di una burocrazia opprimente, e che li costringe ad un sistema di tassazione assolutamente impreciso e senza senso non degno di un paese civile liberaldemocratico, sentono forte il bisogno di una politica capace di stare vicina alle istanze del mondo del lavoro; un mondo che oggi li vede molto spesso uniti ai lavoratori nel chiedere un mercato profondamente diverso, caratterizzato dalla presenza di strumenti nuovi in grado di affrontare le problematiche nuove nel tema dell’occupazione. Il Partito Democratico deve diventare per tutti costoro interlocutore di riferimento. Questo vuol dire anche non aver paura a volte di uscire dalle tradizionali logiche di apparentamento, e dire magari anche cose che non corrispondono per forza in ogni caso con quanto detto dal sindacato. Ciò non vuole essere un attacco aprioristico nei confronti del sindacato, tutt’altr è il riconoscimento che anche in quel mondo si avverte una forte necessità di rivoluzione a causa di una crisi di rappresentanza ormai evidente a tutti, ed è inutile sottolineare come non si trovino neanche a pagarli dei miei coetanei, giovani lavoratori, iscritti ad associazioni sindacali. Mi soffermo su questo tema perché penso che debba essere il primo tema di ogni programma: è dalla rete di piccole e medie imprese di qualità che questa regione ha tratto negli anni il suo benessere, e solo da queste si può ripartire per riprogettare il futuro. Ma è proprio questo settore che oggi è drammaticamente in sofferenza, e la politica non può non essere al suo fianco, perché esserlo vuol dire stare anche dalla parte delle famiglie e dei lavoratori. Non è una questione di destra o sinistra o di opportunità politica, è una questione di necessità attuale e urgente. L’unica vera via per la ripresa.