di Sanzio Scarpellini
Tutti sono d’accordo che necessita rilanciare l’economia. Tutti sono d’accordo che bisogna diminuire le imposte alle aziende affinchè siano più competitive, che occorra incrementare i consumi e quindi aumentare l’occupazione, che necessita diminuire la burocrazia e il debito pubblico: sul come realizzare questi obiettivi le opinioni sono alquanto divergenti. Per alcuni basterebbe limitare il libero mercato, per altri incrementarlo. Queste due opinioni contrapposte ricorrono troppo frequentemente. Per i primi è all’economia di mercato che vengono imputate le colpe dell’attuale crisi, del permanere, anzi aumentare, del divario fra ricchi e poveri, della disoccupazione, degli sprechi, delle speculazioni finanziarie. Per i secondi l’eccessiva invadenza dello stato in tutti i campi economici e sociali, la inestricabile legislazione e la soverchiante burocrazia sono le cause delle difficoltà del nostro paese.
Ecco, in questo periodo di grave disagio sociale vale la pena soffermarci, seppur brevemente, su alcune delle principali scuole (o teorie) economiche al fine di riscoprirne ed analizzarne i concetti basilari e (riconoscere) le esperienze passate per non ricadere negli stessi errori.
Da una parte i classici e i monetaristi, di cui il più autorevole rappresentate è Milton Friedman, premio nobel nel 1976. Friedman, sostenitore dell’impostazione monetarista assieme ad altri teorici della scuola di Chicago, ha sempre ritenuto il liberismo economico (laissez faire) in grado di garantire uno sviluppo ottimale del sistema. Contrario quindi all’intervento pubblico nel sistema economico perché, come tutti gli economisti classici, credeva nell’esistenza di meccanismi autoregolatori del mercato stesso.
Dall’altra parte i keynesiani e neo-keynesiani sostenitori del libero scambio, ma anche di un mercato ben regolato al fine di garantire una corretta competizione tale da assicurare eticamente il sistema capitalistico. Riconoscere questo aspetto (mercato ben regolato) non significa negarne l’importanza ma” valutarne il meccanismo in un contesto ampio che ne preveda tutti i ruoli e gli effetti ivi comprese le diverse operazioni di mercato speculative che creano gravi disuguaglianze nella distribuzione delle risorse, delle ricchezze e delle proprietà”. (Il caso Lehman insegna). Il maggior rappresentante di questa teoria è John Maynard Keynes che nel 1936 pubblicò ”la teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”. Questo libro, una pietra miliare nello studio dei fenomeni macro-economici, continua a produrre stimolanti diatribe sul funzionamento del mercato ed in particolare sulla necessità di un intervento dello stato nel sistema economico. Keynes analizzò in maniera sistematica le cause della grande crisi degli anni trenta. Una crisi che per ampiezza, intensità e durata è stata definita “grande depressione”. Nei maggiori paesi industrializzati la produzione diminuì dal 30% al 50%; negli USA si registrarono valori di disoccupazione superiori ai tredici milioni, in Germania sei, in Gran Bretagna tre. Vi erano state altre gravi congiunture economiche ma il carattere distintivo della crisi del ‘29 fu, oltre che per gravità e diffusione, la sua eccezionale durata. Una caratteristica singolare di quel periodo fu che la teoria economica di quegli anni non fosse stata in grado né di prevederla né di capirne le cause. I maggiori economisti di quel tempo tra cui Shumpeter e Robbin rimasero in silenzio, anzi raccomandavano di non fare nulla: la depressione doveva seguire il suo corso, il mercato avrebbe assicurato la guarigione; e fino al 1933 il presidente degli USA Hoower non prese alcun provvedimento degno di nota.
Keynes contestò in maniera assoluta l’impostazione classica: il mercato non poteva garantire l’equilibrio del sistema e la piena occupazione. Una eventuale diminuzione dei salari (come ritenevano i classici) non sarebbe stata una soluzione credibile e non avrebbe potuto portare all’equilibrio: il minor salario percepito dai lavoratori avrebbe portato ad una riduzione della domanda di beni di consumo e questo avrebbe indotto le imprese a ridurre gli investimenti e quindi a non assumere mano d’opera. Keynes, contrariamente a ciò che sostenevano i classici, pensava che lo stato potesse (dovesse) svolgere un ruolo importante nel sostenere la domanda aggregata per limitare e rimuovere gli squilibri che avvenivano e tutt’oggi avvengono nel sistema economico.
Anzi, con opportuni interventi di politica economica pensava fosse possibile integrare gli investimenti privati con quelli pubblici nel tentativo di raggiungere una maggiore occupazione di tutti i fattori produttivi. Un ampliarsi della domanda causa una serie di reazioni positive nel sistema economico creando un circolo espansivo sul reddito nazionale. Lo stato, per Keynes, non deve essere neutrale: deve svolgere, specialmente nei periodi di depressione e quindi di disoccupazione, un ruolo importante nell’economia. Le teorie keynesiane hanno influenzato le scelte economiche dei governi dei paesi occidentali specialmente negli anni cinquanta-sessanta con interventi dello stato nell’economia impensabili per le teoria classica. Negli anni settanta-ottanta si è avuto un ritorno alle teorie monetariste del Friedman con l’avvento al governo degli USA del presidente R. Reagan e con la Thatcher in Gran Bretagna. Solo in questi ultimi anni, dopo alcuni decenni di silenzio, le teorie keynesiane stanno ritornando di moda. (la grave depressione ne è certamente una concausa). Le forze politiche si sono avvalse della teoria keynesiana per proporre un sistema sociale in cui il governo si facesse carico delle condizioni effettive dei propri cittadini al fine di raggiungere il “welfare state”. Voglio aggiungere che in alcune lettere al presidente Roosevelt, Keynes suggeriva che nei periodi di depressione e quindi disoccupazione sarebbe stata necessaria una spesa pubblica al fine di stimolare, anche grazie al moltiplicatore economico, l’economia senza, raccomandava, aumentare il prelievo tributario. Se ora ci soffermiamo alla nostra lunga e perdurante crisi, ci chiediamo: ha ancora senso parlare d’intervento dello stato in economia? Penso che in questa fase di assoluta precarietà del nostro sistema produttivo uno sforzo dello stato in alcuni campi (bonifica del territorio, miglioramento delle infrastrutture, assoluta semplificazione delle norme per permettere veloci investimenti privati e pubblici, una rimodulazione più snella dei contratti di lavoro, una politica monetaria aggressiva, un sistema giudiziario più celere) potrebbe essere il volano di una ripresa lenta ma sufficientemente costante. Sono evidenti le principali accuse che sarebbero mosse a questo intervento: aumento del processo inflazionistico (in realtà oggi si rischia la deflazione), e lievitazione del debito pubblico.
Negli anni trascorsi troppe volte per l’accumularsi del debito si è attribuita colpa alle teorie keynesiane e non a una lottizzazione e spesa pubblica senza scrupoli che hanno premiato e favorito lobby, speculazioni finanziarie, correnti politiche, corporazioni, gruppi di pressione, cordate di “amici” e solo raramente hanno preso in considerazione il merito e l’interesse pubblico.
In questi giorni il presidente del consiglio Renzi sembra abbia intrapreso una serie di provvedimenti a sostegno e rilancio dell’economia che tendono ad avvicinarsi alla teoria di sviluppo propugnate e sostenute da Keynes. Nella speranza che queste misure agevolino la ripresa mi auguro che tutte le forze politiche lo permettano.