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Eutanasia. Non è una risposta al mistero del dolore e della morte

     Giugno 26, 2017   No Comments

di Stefano Spinelli

Nell’ultimo numero di Energie Nuove, bendue interventi, quelli di Carlo Flamigni e di Giancarlo Biasini, sono dedicatial tema del fine vita, entrambi favorevoli all’introduzione dell’eutanasia nelnostro ordinamento giuridico. Essi contrappongono una visione religiosa dellavita a una visione laica. La prima porrebbe la questione in termini di“sacralità” della vita umana e di sua “irriducibile dignità”, e non darebbealcuna importanza “alla percezione soggettiva che ciascuno ha della suadignità”. La seconda avrebbe come principio morale di riferimento il “Manifesto di bioetica laica”, secondocui “ogni individuo ha pari dignità e non debbono esistere autorità superioriche possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui nelle questioni cheriguardano la sua salute e la sua vita” (credo però che un’applicazionecoerente di detto principio porterebbe alla dissoluzione della stessaconvivenza sociale).

Ebbene, la prima cosa che ho pensatoleggendo queste considerazioni è che il conflitto fede/laicità (comunque malposto e ovviamente risolto dai due autori a favore della seconda), non mi pareil punto centrale della questione, la quale si pone innanzitutto come unaquestione antropologica, che tocca profondamente la stessa natura umana.

Ricordo che la prima enunciazione contrariaall’eutanasia è contenuta in undocumento del tutto “laico”, che risale addirittura al 420 a.C., ed è quel giuramento di Ippocrate, sul quale –ancora oggi – i medici giurano. Ivi si trova scritto “non somministrerò adalcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un taleconsiglio”.

Siamo agli albori della nostra civiltà el’uomo sin dall’origine, usando il proprio cuore e la propria intelligenza, hasentito la necessità di ricordare a se stesso che il fatto di dare la morte adaltri, anche dietro loro richiesta, non è ragionevole, non è corrispondentealla natura umana, non è la soluzione.

L’uomo, indipendentemente dalla propriacultura religiosa (ma il riferimento è chiaramente alla cultura cattolica), dasempre ha avvertito in se stesso, nella propria esperienza originaria, e noncerto per imposizioni esterne, l’antiumanità di una prassi come l’eutanasia.C’è oggettivamente un problema dicorrispondenza alla “legge umana” nel dare la morte per pietà. La “legge di Dio”,che diventa compiuta con l’incarnazione di Cristo, svelando maggiormente l’uomoa se stesso, ne rende esplicito lo stridore.

Se di conflitto si vuole parlare, credo chelo si debba cogliere tra una visione compassionevole e una visioneutilitaristica della vita. La prima, considera l’uomo come un “io inrelazione”, ed è volta a sostenere e accompagnare chi soffre fisicamente epsichicamente anche in quella sua parte di vita più difficile da capire e daaccettare. E’ questo l’esatto significato di compassione, ossia patire insieme con.

La seconda, considera l’uomo come una“monade a se stante”, in cui il momento della scelta e della solitudine èelevato a tal punto da trasformare il buon samaritano in colui che esegue lacondanna a morte del suo “prossimo” per un malinteso sentimento di pietà. Lamorte procurata viene così elevata a rango di diritto.

La contrapposizione credo stia tra unacultura della cura e una prassi dell’abbandono.

Non so, comunque, se ci sirenda ben conto della reale portata che comporterebbe un preteso diritto dieutanasia (da non confondere con l’accanimento terapeutico, che riguarda ilrifiuto di terapie sproporzionate o sperimentali). Si sta evidenziando semprepiù chiaramente che il punto di approdo di alcune sentenze di giudici nazionalied europei e di alcune legislazioni permissive di paesi a noi vicini (Olanda,Belgio, Svizzera) non è tanto l’eutanasia, ma il suicidio assistito.

La motivazione delriconoscimento di un diritto all’eutanasia – si dice – ha a che fare con la “pietà”.Riguarderebbe infatti persone che si trovano in situazioni di inabilità estremao di coma, oppure in presenza di una vita indegna di essere vissuta e comunqueritenuta tale da chi decide per altri. L’eutanasia dovrebbe interrompere viteumane che non sembrano sopportabili, e la sua giustificazione sarebbel’esigenza di evitare il dolore determinato da una vita costretta in limitipietosi e indegni. Essa dovrebbe rappresentare la risposta di oggi al doloreumano.

Qui è il punto. Se si cominciaa sindacare quale livello di condizione particolare può essere considerata “nondegna di essere vissuta”, o quale livello di sofferenza “non più sopportabile”,chi mai oserà ergersi a giudice per stabilire in quali casi la vita è tale?Perché mai dovrebbero beneficiare dell’aiuto a interrompere anticipatamente lapropria vita solo le persone che si trovano in determinate situazioni, che aipiù appaiono pietose dall’esterno (coma, malattia o inabilità gravi), e nonanche le persone che si trovano in situazioni che potrebbero essere ritenute“soggettivamente” non più sopportabili, come i semplici inabili o i neonatihandicappati, o i malati mentali, o gli anziani in genere, magari sulla base didichiarazioni rese da persone delegate, sulla base del “loro” sentimento dipietà o della “loro” idea di dignità della vita?

Alla fine, la domanda siridurrebbe – e si riduce – a una. Perché mai dovrebbe beneficiare di eutanasialegale e ottenere un aiuto a morire solo chi si trova in situazioni ritenute“pietose”, piuttosto che, più semplicemente, chiunque voglia consapevolmenteporre termine anticipatamente ai propri giorni e lo chieda espressamente?

Che differenza c’è tra lapercezione del dolore collettivamente inteso e quella del doloresoggettivamente vissuto da ciascuno? Viene in mente Baudelaire e il suo “maledi vivere” (spleen), e il corsonaturale di questo male, che viene identificato nella vita stessa.

Se la giustificazione dellasoppressione di una vita umana è la pietà per il dolore altrui, questagiustificazione inevitabilmente si arricchirà di nuove fattispecie, fino acoprire l’esigenza di chiunque chieda di morire, indipendentemente dalla suacondizione – più o meno pietosa – di vita, indipendentemente dall’esistenza dimalattie o di inabilità più o meno gravi.

E’ questo che sta accadendo inEuropa.

Il caso di una recente sentenzadella Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sull’eutanasia (caso Grosse c. Suisse), ha scoperchiato ilvaso di Pandora.

La decisione europea dàsostanzialmente ragione a una donna svizzera di 82 anni che ha chiesto alleautorità del suo paese di essere autorizzata a procurarsi una dose mortale di“medicamento”, al fine di porre fine ai suoi giorni, “non sopportando dicontinuare a subire il declino delle sua facoltà fisiche e mentali”. Essa nonsoffre di alcuna patologia clinica, non ha nessuna malattia, nessunadisabilità. E’ solo un’anziana che vuole morire e chiede di essere aiutatadalla comunità civile.

Sancire che ciascuno ha dirittodi scegliere come e quando morire significa che la comunità civile devegarantire che detta volontà venga attuata.

Neppure più per pietà, ma perdiritto, per conquista civile.

Così, in Olanda l’eutanasiaviene “distribuita” a domicilio, con il programma “eutanasia ambulante”, con ilquale si porta a casa di chi la chieda l’ “ultima pillola volontaria”, unfarmaco eutanasico pagato dalle compagnie di assicurazioni. Così, anche alcunidisabili psichiatrici hanno avuto accesso al farmaco della “buona morte”, purnon essendo terminali, ma il cui dolore è stato ritenuto (da altri, ovviamente)insopportabile, laddove il criterio per giudicarlo è del tutto soggettivo.

Così, in Belgio, anche ibambini e i neonati possono essere “trattati” con l’eutanasia, se la loro vitavenga ritenuta (da altri, ovviamente) non degna, in applicazione del cd. “protocollo di Groeningen” che stabiliscela procedura da seguire per sopprimerli.

E dire che la storia dovrebbe averciinsegnato qualcosa in merito (il programma eugenetico nazista chiamato Aktion T4 era anche detto significativamente“programma eutanasia”, essendo finalizzato all’eliminazione, per pietà,compassione o per indegnità, delle persone più deboli).

Eppure, come si dicevaall’inizio, da sempre l’uomo ha avvertito che l’adesione alla volontà di chichieda di anticipare la propria morte non è corrispondente all’esigenza umanapiù profonda e vera.

La domanda allora è quale mondovogliamo lasciare ai nostri figli?

 

  •   Published On : 7 anni ago on Giugno 26, 2017
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  •   Last Updated : Giugno 26, 2017 @ 10:49 pm
  •   In The Categories Of : Opinioni

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