di Enrico Cisnetto*
Se il problema del “Nuovo Polo per l’Italia” fosse il difetto che gli ha inteso appioppare Silvio Berlusconi – “rappresenta il vecchio”, immagino intendendo quella Prima Repubblica cui il Cavaliere deve le sue fortune imprenditoriali – allora il trio Casini-Fini-Rutelli potrebbe dormire sonni tranquilli. Il “nuo-vo” sarebbe la fallimentare Se-conda Repubblica e chi la incarna da 17 anni? Allora chiunque si candidi a realizzare la Terza Repubblica, per il solo fatto di avere questo intendimento, va più che bene. In realtà, per quello che è impropriamente chiamato “terzo polo” un problema, o se si vuole un “nemico”, c’è, eccome se c’è: il bipolarismo. Ed è doppi non solo esterno – Pdl e Pd, oltre che una certa intellighenzia che ha sempre avuto nel Corriere della Sera il suo punto di riferimento, che continuano a reiterare lo schema bipolare – ma anche interno al nuovo “cartello”, se si dovesse limitare a manifestare la sua terzietà rispetto ai due poli del “bipolarismo all’italiana”, senza riuscire ad elaborare un’autonoma ed organica proposta politica. Certo, è difficile valutare il “Polo per l’Italia”, nato formalmente alla convention di Todi per ora come solo coordinamento parlamentare, prescindendo dalla drammatica congiuntura della politica italiana. Contraddistinta sì dalle penose vicende personali di Berlusconi – che vanno giudicate non sotto il profilo morale, che non va mai confuso con il giudizio politico, ma sotto quello “comportamental-istituzionale”, perché certe condotte sono incompatibili con il ruolo che ricopre e le funzioni che deve svolgere – ma anche dall’ennesima operazione giudiziario-mediatica, che stride con quel “fallimento della giustizia” molto evocato e assai poco contrastato (è dal 1994, anno in cui offrì a Di Pietro i galloni di Guardasigilli, che Berlusconi ci racconta tutti i difetti della magistratura senza aver mai fatto nulla per porci rimedio). Ma se si guarda avanti, e s’immagina che quel comitato parlamentare che oggi ha il compito di fronteggiare la crisi del berlusconismo e con esso del governo, ambisca a diventare una vera e propria forza politica, ecco che il discorso diventa diverso. E allora, sia consentito a chi, come il sottoscritto, da oltre un decennio denuncia le contraddizioni del bipolarismo all’italiana e predica la necessità di passare al più presto alla Terza Repubblica, mettendo in guardia sull’inarrestabile declino del Paese, di attrarre l’attenzione su alcuni pericoli che si scorgono lungo la strada della costruzione del “Polo per l’Italia”, e di indicare alcune scelte che paiono indispensabili. Il primo pericolo era quello di continuare ad autodefinirsi “terzo polo”. Lo indico al passato, perché per fortuna mi pare un po’ tutti abbiano colto la contraddizione insita in quella definizione: non si può denunciare il crollo dei due poli del nostro bipolarismo straccione e poi rivendicare per sé il ruolo di “terzo”. La “terza forza” serviva quando serviva creare le condizioni per anticipare la fine della Seconda Repubblica, sulla base di un’analisi, risultata purtroppo più che fondata, che considerava certo il fallimento del bipolarismo e nefasto il suo protrarsi nel tempo. Qui, invece, c’è bisogno di costruire il “primo polo”, cioè un’aggregazione di moderati e di riformisti, laici non laicisti e cattolici non clericali, che erediti di fatto il voto e lo spazio politico che fu del centro-sinistra della Prima Repubblica. E’ quello che nel linguaggio giornalistico e politico ormai corrente – e questo la dice lunga a proposito della fine di un’epoca – viene chiamato il “dopo Berlusconi”, che poi altro non è se non la necessità di individuare uomini, risorse e strategie per fare al più presto ciò che lo stesso Cavaliere fece nel 1994: raccogliere, senza continuità alcuna, l’eredità di chi aveva avuto il maggior consenso fino a quel momento. Allora la catarsi fu Tangentopoli, oggi l’implosione del sistema berlusconiano che avviene subito dopo quello, tuttora perdurante, che ha travolto la sinistra. Ma la condizione è la stessa: costruire un nuovo sistema politico. Perché così come allora si passò da un regime politico basato sul sistema parlamentare e il proporzionale puro a qualcosa che ambiva confusamente ad essere altro (ne venne fuori, purtroppo, il fallimentare “bipolarismo all’italiana”), così oggi si deve passare da un ibrido – un maggioritario senza precedenti e senza uguali (chi prende un voto di più ha la maggioranza assoluta dei seggi) e un presidenzialismo strisciante di stampo populista – ad un sistema più maturo ed europeo. La tesi dei bipolaristi è semplice quanto trita: gli italiani si sono abituati a scegliere tra destra e sinistra e tra i leader che i due poli esprimono, e comunque questa è la strada che ovunque in Europa e in Occidente si segue. In entrambi i casi si tratta di forzature della realtà. In primo luogo perché gli italiani vogliono poter scegliere un sistema politico semplice e capace di esprimere un governo in grado di governare. Punto e basta. Non importa la formula, conta il risultato. E sfido chiunque a dimostrare che quello che ha preso il nome di Seconda Repubblica sia un sistema che abbia funzionato. Esso ha prodotto coalizioni spurie, basate solo sul comune interesse di vincere le elezioni, ma poi costrette ad evidenziare i propri limiti – il centro-destra a causa del ruolo padronale del Cavaliere, il centro-sinistra per l’eccesso di eterogeneità dei suoi componenti – fino al punto di perdere sempre, per procurata delusione, le elezioni politiche successive a quelle vinte (siamo passati dalla mancanza di alternanza della Prima Repubblica, peraltro spiegabile con il ruolo del Pci, all’alternanza obbligatoria). Se a questo si aggiunge la contraddizione di avere dei partiti totalmente privi di radicamento politico-culturale tanto da dover ricorrere a nomi botanici, rivendicando tutto ciò come segno di modernità e di superamento delle vecchie ideologie del Novecento, ma nello stesso tempo di aver adottato il vecchio e consunto schema destra-sinistra come base dicotomica del bipolarismo, ecco che si capisce come il sistema politico che si vuole difendere e in nome del quale si condanna la nascita di un altro polo, sia invece totalmente da superare. Di solito, di fronte a queste incontrovertibili osservazioni, i politologi e gli opinionisti cantori delle virtù del sistema maggioritario-bipolare-leaderistico, replicano che questi sono i difetti della versione italiana del bipolarismo, e che dunque non ad altro bisogna puntare ma a migliorare ciò che non va. Peccato che questa opzione conservatrice, che accomuna destra e sinistra, abbia un paio di difetti decisivi. Prim il bipolarismo è in crisi nei paesi che lo hanno sempre adottato, e tutti sono alla ricerca o di “grandi coalizioni”, più utili in fasi difficili in cui occorre prendere decisioni impopolari (per esempio cambiare il welfare), o comunque di soggetti “terzi”, di solito di centro, che aiutino a formare maggioranze e governi più stabili e forti. Second il bipolarismo realizzato in Italia ha troppi difetti per essere emendabile. E quei difetti non sono casuali, ma figli sia della nostra storia più recente sia degli antichi cromosomi nazionali. Quindi, la cosa che primariamente deve caratterizzare il “Polo per l’Italia” è la capacità di pronunciare parole chiare sulla necessità di cambiare la legge elettorale maggioritaria che abbiamo, in funzione di un sistema politico che non deve più essere bipolare ma formato da 4-5 soggetti che s’incontrano e si scontrano sui programmi e non su pronunce di schieramento – che avranno anche il pregio di essere preventive, ma sono basate sul nulla – cioè un sistema politico multipolare che a sua volta deve trovare la sua consacrazione in un quadro istituzionale conseguente (e dunque assai diverso da quello attuale, che peraltro è bipolare solo nella prassi e nella forma). Dico questo, che potrebbe sembrare ovvio per un’aggregazione di forze che si definiscono estranee ai due poli esistenti, perché si intravedono non poche contraddizioni. Un po’ perché quei nomi di Casini e Fini nei rispettivi simboli di partito fanno a pugni con la invocata diversità da Berlusconi – che va praticata fino in fondo, guai a enunciarla e poi fare l’errore di scimmiottare il Cavaliere, che tra l’altro sul suo terreno è imbattibile – un po’ perché la storia degli ex di An è sempre stata maggioritario-bipolare, e quel richiamo costante al “siamo e restiamo a destra” fa a pugni con quanto detto fin qui. E’ da condividere il pronunciamento (tardivo, ma pazienza) di Farefuturo quando respinge la retorica della “scelta di campo” con cui Berlusconi ha plasmato il dibattito politico – “non su un programma, non su un’idea politica, non su un’eredità culturale, non su una visione di futuro, ma su un nome e un cognome” – ma sarebbe bene che si evitasse di scadere in quell’anti-berlusconismo che finora è stato il miglior alleato del Cavaliere, e di cui si sono visti tratti nel dibattito parlamentare sulla sfiducia che il 14 dicembre hanno portato acqua al mulino del governo. Inoltre, non basta neppure dire “siamo contro il bipolarismo” – cosa che finora hanno fatto senza reticenze solo Casini e Rutelli, non Fini – perché occorre anche indicare quale altro tipo di sistema politico si vuole, o per meglio dire quale è il più adatto a fare della Terza Repubblica una svolta positiva nella vita del Paese. Visto da dove si viene, considerati gli errori che si sono commessi, la cosa più logica è adottare il sistema tedesco, e non solo per la legge elettorale ma anche per gli assetti istituzionali e le regole di funzionamento della democrazia. Altri potranno preferire l’esperienza francese, ma una cosa è certa: occorre che chi intende creare il nuovo polo scelga, in fretta e senza confusi compromessi. E se, per esempio, si crede necessario, come lo credo io, un lungo periodo di forte convergenza delle forze politiche riformatrici (almeno due legislature di grande coalizione), bisogna dirlo con chiarezza, indicando anche le ragioni delle eventuali esclusioni (io dico no a giustizialisti e separatisti). La cosa migliore sarebbe raccogliere l’idea lanciata da Società Aperta di un’Assemblea Costituente – e che ho visto riecheggiare nella proposta di D’Alema di una “alleanza costituente” – con cui non soltanto definire in una sede propria e alta le nuove regole del gioco democratico e il profilo istituzionale della Terza Repubblica, ma anche offrire agli italiani il segno, psicologico prima ancora che pratico, di un cambiamento vero e profondo. L’altro nodo da sciogliere subito riguarda la definizione della piattaforma programmatica su cui edificare la proposta politica. Che poi significa elaborare un “progetto paese” per fermare quel declino – economico prima di tutto, ma anche sociale, culturale e morale – cui il Paese è condannato da due decenni. Sto parlano quindi di quelle grandi riforme strutturali che non si sono mai fatte, spesso dipinte come impopolari solo per giustificare l’impotenza di chi avrebbe dovuto realizzarle e invece ci ha rinunciato, e che non a caso richiedono governi di “grande coalizione”. Per farlo occorrono altre due scelte importanti: formare una classe dirigente intorno al concetto di squadra anziché di leader; rubricare i cosiddetti temi etici come questioni che sono ad appannaggio del parlamento, e dunque dei singoli parlamentari, e non del governo, in modo da superare una volta per tutte la dicotomia laici-cattolici e poter creare le condizioni di una loro pacifica convivenza dentro lo stesso partito senza dover chiedere impossibili mediazioni, visto che è sul programma di governo che si deve basare l’aggregazione di forze culturalmente diverse. Quest’ultimo è un passaggio decisivo, considerato il fallimento patito dal Pd nel mettere insieme due diverse tradizioni, ma soprattutto considerato che a Todi si sono già visti i prodromi di un analogo problema quando il dibattito è andato a finire sulla “identità cristiana”. Anche qui la mia idea è netta: le forze politiche destinate a creare il “Polo per l’Italia”, cui possono aggiungersi altri movimenti e associazioni, devono conservare la loro autonomia e con essa le proprie radici identitarie (sperando che tutti i soci del club ce l’abbiano). Ma nello stesso tempo devono dar vita ad un nuovo soggetto unitario, destinato a presentarsi alle elezioni, cementato esclusivamente dal programma di governo. Nel quale, per effetto di un “grande patto” metodologico, sono esclusi i temi etici, destinati ad essere contestualizzati solo in sede parlamentare, evitando che i governi li assumano come elementi del programma o li facciano oggetto di propri disegni e decreti legge. Saranno dunque i singoli esponenti politici, i singoli parlamentari a portare avanti le diverse tesi, ma non i partiti che si candidano alla guida del Paese, che devono avere come unico collante il programma di governo, da cui appunto le tematiche etiche sono escluse. A questo proposito, mi sia consentito di dire, da laico che si è formato nel Pri di Ugo La Malfa e che rispetto a quell’esperienza si è comportato da monogamo, che proprio dai laici deve partire questa proposta di “disarmo bilanciato” delle vecchie contrapposizioni. Perché del pensiero laico del Novecento va conservata e salvaguardata la dimensione strettamente culturale, consci che in politica la sua pura e semplice trasposizione dal passato non solo non ha mercato – e questo è un dato di fatto, non un’opinione – ma neppure senso. Di quel pensiero e di quella esperienza – parlo di quella repubblicana, ovviamente, ma anche della liberale, socialista e radicale – va invece conservato il metodo, il modo e lo stile di fare politica. Naturalmente questo ha senso nella misura in cui anche i cattolici abbandonano le velleità di tornare ad essere Dc (anche qui, le ragioni di mercato lo dovrebbero suggerire, vista la secolarizzazione della società). D’altra parte, tutte le diverse famiglie laiche sono state oggetto di dolorose diaspore. Ma il tentativo di ricomporle non può avvenire nelle vecchie “case”, che ormai sono ruderi inservibili trasformati in partitini padronali. Viceversa, noi laici dobbiamo dar vita a qualcosa di nuovo, che poi si misuri con le altre realtà del “Polo per l’Italia”, e per farlo occorrono due cose indispensabili: smettere di essere ex repubblicani, ex liberali ed ex socialisti; evitare di credere che qualcuno ci debba adottare. Si può, per certi versi si deve, stare in case non proprie, ma per non essere profughi sfollati occorre avere la forza e la dignità di darsi un disegno politico. Che è cosa diversa dall’inutile ostinarsi intorno i vecchi partitini diroccati, vuoi che sia per litigare vuoi per fare lo sforzo di riunificare ciò che è andato in frantumi in nome della nostalgia. Spero proprio che al più presto si dicano parole chiare su tutte queste questioni. Perché altrimenti, a parte riscuotere il mio personale disinteresse, il “Polo per l’Italia” rischia di non convincere i milioni di italiani stanchi sia del “bunga bunga” sia delle sue strumentalizzazioni, di essere la giusta e tanto attesa alternativa. E per il Paese sarebbe un dramma nel dramma. (www.enricocisnetto.it)
*Presidente Società Aperta