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Cosa occorre fare

     Giugno 27, 2017   No Comments

di Davide Giacalone*

Sia che l’euro sopravviva alla pochezza della classe politica europea, sia che salti mettendo tutti sulla scia dei greci, noi italiani avremo da fare i conti, subito e sul serio, con il debito e la spesa pubblica. Entrambe da abbattere. Se ci apprestas-simo a farlo con le tasse non solo non ci riusciremo, ma faremmo stramazzare i contribuenti, il sistema produttivo e l’Italia tutta. Se pensassimo di farlo con i tagli ne usciremmo sfregiati e dissanguati, tanto più che a tagliare sarebbe chi dovrebbe essere tagliato. Ci sono due vie alternative, da imboccare subito.

Sul fronte del debito dobbiamo dargli un colpo secco, portandolo sotto la totalità del prodotto interno lordo, quindi allineandolo a quello degli altri grandi europei (dove cresce). Possiamo riuscirci senza allungare le mani sul patrimonio dei privati, quindi senza porre irrisolvibili problemi di equità e tenuta politica. Possiamo riuscirci lavorando sul patrimonio pubblico. Ci sono diversi possibili approcci, discussi in circoli chiusi, mentre sarebbe bene ne parlasse la politica tutta, ove abbia ancora voglia d’esistere: si prende il patrimonio alienabile, composto da mattoni e partecipazioni, si aggiungono concessioni e crediti, li si mettono in un veicolo finanziario, s’incarica chi lo dirigerà di venderlo al meglio (non certo in una botta, perché equivarrebbe a svenderlo e regalarlo, che di regali se ne sono già fatti troppi), intanto si quota la società e, se necessario, si chiede agli italiani con maggiore liquidità di acquisire una parte delle quote. Non sarebbe una patrimoniale, perché i soldi non verrebbero buttati via nel servizio ad un debito (con questi tassi e con questa recessione) insostenibile, ma impiegati in un fondo che restituirà i soldi a chi ce li ha messi. Un valore stimabile fra i 400 e i 600 miliardi (a seconda delle formule), che farebbero scendere di trenta punti il debito, portandolo al 90% sul pil.

La regola del fondo è: si vende a fette programmate e il ricavato va in gran parte all’abbattimento del debito e per la parte rimanente a investimenti in reti e infrastrutture. Così il mercato si riprende.

Sul fronte della spesa inutile far finta di credere che ci sia un qualche governo in grado di abbassarla quanto serve. Arrivati alla soglia della spesa corrente, composta da stipendi e gestione, l’incapacità politica non saprà mai conciliare la riduzione dei servizi con il necessario consenso (siamo una democrazia, anche se si tende a dimenticarlo). Usiamo un sistema diverso: lo Stato ceda attività al mercato. Vale anche per la scuola, la sanità, la pubblica amministrazione. Chiedendo a chi gestirà di garantire almeno la stessa qualità (non ci vuole poi molto), ma percependo somme progressivamente minori, fino ad una riduzione del 20% in cinque anni. Per i privati sarebbe un affare, perché una gestione passabilmente razionale, non imbrigliata dalla cogestione politica e sindacale, consente sinergie oggi sconosciute. Anche solo lavorando sull’organizzazione e la digitalizzazione la scuola costa meno, offre un servizio migliore ed è un luogo di lavoro più attraente per chi voglia fare l’insegnante e non l’impiegato in attesa di pensione.

Se lo Stato si sottopone ad una drastica cura dimagrante, divenendo più leggero, evita che a stecchetto siano tenuti i cittadini. Né vale lo spauracchio del taglio dei banchi, dei posti letto in corsia, o dei servizi essenziali, perché questo, semmai, è quel che accadrà continuando l’andazzo attuale. Con provvedimenti di questo tipo i tassi scendono senza che ci sia bisogno di strusciarsi alla signora Merkel, anzi, rappresentando un esempio di quel che dovrà fare l’Europa tutta, ove non voglia affondare nelle proprie paure.

In un Paese così rivoluzionato le liberalizzazioni, che ci vogliono, ma devono essere vere e non vendicative, partendo da quel che invischia il mercato, sarebbero un formidabile volano di sviluppo. Ma sì, datemi pure del matto, però credo che con un po’ di sana politica, una buona dose d’orgoglio nazionale e tanta libertà (anche dal giogo fiscale) per i produttori, imprenditori e lavoratori, possiamo ben puntare ad un nuovo salto in avanti. Oltre tutto si chiude con il passato della miseria politica e dell’accattonaggio a spese della collettività. Non mancano le forze, mancano il coraggio e le idee.

Qualcuno ha notizie dal pianeta dei due grossi partiti politici? Esistono ancora, a parte il ripetere che saranno leali con il governo, vale a dire confermare che preferiscono essere commissariati, piuttosto che governanti? La prassi costituzionale non conosceva le consultazioni quirinalizie, volte ad accertare la loro capacità di votare leggi e riforme, giacché la Costituzione, per chi ancora ne conservi una copia, non prevede alcun ruolo del Colle nel processo legislativo, se non alla sua conclusione e al momento dell’emanazione. Eppure Napolitano li ha chiamati e ricevuti a turno. Probabilmente per accertarsi della loro perdurante esistenza.

Sarà il caso d’osservare, però, che il commissario chiamato a far fronte alla crisi del debito ha avviato attività plurime, destinate ad avere scarso impatto immediato e vaste ripercussioni nel futuro. Fa politica, come giustamente compete al governo, anche rimodellando il patto sociale su cui si regge il sistema, sia dal punto di vista fiscale che della legislazione regolante il mercato. Se i partiti contano di tornare sulla scena a cose fatte commettono un errore di calcolo, perché a cose fatte la scena non li contemplerà.

Prendersela con Monti per le liberalizzazioni è cosa alquanto bislacca, visto che si sarebbero già dovute fare e che tale lavoro sarebbe spettato proprio a quei partiti, dimostratisi incapaci. Ma il fatto è che le liberalizzazioni sono, per la gran parte, dei titoli vuoti, delle bandiere senza stemma, il cui solo significato consiste nel dare l’illusione che cambiare si può solo abrogando la politica. Lo hanno capito? Quei partiti saranno considerati colpevoli dell’insuccesso, anche quando non avranno fatto altro che chinare la testa.

Faccio solo due esempi: benzinai e notai. Le misure proposte dal governo servono a meglio sostentare una rete disfunzionale, che dovrebbe essere sfoltita: i benzinai sono troppi e poco automatizzati, il doppio della Francia e il triplo dell’Inghilterra, sicché (i conti tornano) ciascuno eroga, mediamente, la metà dei colleghi francesi e un terzo di quelli inglesi. Se “liberalizzare” significa allargare i prodotti non oil, quindi altre merci, ciò servirà a conservare l’esistente, non a cambiarlo. Sul fronte dei notai il problema non è quello di aumentare il loro numero (per giunta a cura della stessa categoria), ma diminuire gli atti per cui i cittadini sono costretti a ricorrervi. Un tempo molti passaggi, nella vita delle società a responsabilità limitata (srl), si facevano sul libro soci, ora dal notaio, con il risultato che molte di queste società spendono per i notai più di quanto abbiano come capitale sociale. Liberalizzare dovrebbe servire ad alleggerire, non il contrario.

Ma i grossi partiti sembrano ipnotizzati. Timorosi di dire l’ovvio, per non prendersi la responsabilità di avere osato obiettare. Da seguace delle liberalizzazioni, invece, mi prendo la libertà di sostenere che farne di apparenti, con interminabili tira e molla, che non daranno risultati apprezzabili, nel mentre s’affronta un biennio di recessione, sembra la ricetta sicura per far credere che le liberalizzazioni portano male. Come porta male farle a cura non di chi ne risponde agli elettori, ma di chi popola la categoria meno esposta alla competizione e al mercato: i mandarini della burocrazia statale, giudiziaria, amministrativa e professorale.

Cosa aspettano, i grossi partiti, che al Quirinale obiettino sulla disomogeneità del decreto, negando la firma? Illusi, quello è un trattamento riservato ai governi politici (meglio se antipatici al Colle), mica a questo. Napolitano non è il conte Ugolino, ma un genitore premuroso.

Quando l’attuale esecutivo nacque non mi scagliai contro, perché la situazione era drammatica. Ancora oggi un punto forte del governo Monti è il ricordo lasciato dai predecessori. Ma avvertimmo del pericolo: se nel tempo di questo governo i due grossi partiti non provvedono ad un accordo per cambiare la legge elettorale e lo schema costituzionale, se non sono in grado di giungere a un compromesso che copra il tempo di questa e della prossima legislatura, sono finiti. Né è il caso di festeggiare, come pure si sarebbe tentati, perché così si apre la via ad una legislatura, la prossima, dominata da caos e antagonisti.

Il tempo è trascorso. La loro capacità di reazione è stata nulla. Se Alfano e Bersani non s’affrettano, a nome dei due mondi spappolati, ad annunciare il cambio di passo saranno gli elettori a stabilire chi, fra i due schieramenti, scompare per primo. Il secondo segue a ruota.
*Editorialista per Libero, Il Tempo e RTL.102.5

  •   Published On : 7 anni ago on Giugno 27, 2017
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  •   Last Updated : Giugno 27, 2017 @ 9:34 am
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