di Franco Pedrelli
Il 2012 si apre con una nota distintiva di fondo: Time Magazine pubblica in prima di copertina, quale persona dell’anno appena trascorso, “I Protestatari”. Analogamente Wired Italia sceglie quale icona del 2011 il Presidente Giorgio Napolitano.Da un lato abbiamo generazioni di giovani, che hanno infiammato con rivolte, scontri e proteste un po’ in tutto il mondo, toccando anche regioni europee, quali Spagna, Gran Bretagna e Grecia.Dall’altro abbiamo un combattivo 80enne, emblema di quella restante Europa che proprio non ha voglia di scrollarsi di dosso l’incrostatura del vecchio modo di interpretare la politica. Emblema tra gli emblemi, l’Italia primeggia da anni in questa sorte di decadenza politica, economica e sociale.Quel che è successo nel 2011 non deve sorprenderci più di tanto, perché dalla comparsa della forma democratica repubblicana, con intervalli di circa mezzo secolo, si sono sempre avute le rivoluzioni.È avvenuto con le rivoluzioni in America e Francia e Haiti; quella del 1848; le rivoluzioni del 1910 in Russia, Germania, Irlanda, Turchia, Egitto e Messico; quindi i movimenti di ribellione del secondo dopoguerra, vedi, per quel che ci riguarda, il 1968. E cinquant’anni esatti dopo eccoci qua, nel 2011, con tutto il rivoltamento nel mondo, che poco o nulla ha interessato il nostro Paese.Tuttavia, anche l’Europa dovrà fare la propria rivoluzione, volente o dolente, se non vuole sottrarsi al ruolo di protagonista che le compete sulla scena internazionale, o, come si dice oggi, globalizzata. Questa rivoluzione ha un obiettivo preciso, ineludibile, non procrastinabile e si chiama smantellamento dello statalismo.Lo statalismo è stata la forma che ha modellato il sistema di welfare europeo, invidiatoci a livello mondiale, tranne poi che gli invidiosi si sono accorti come fossero loro stessi i finanziatori del welfare altrui.Ora che il gioco si è interrotto, complice la crisi mondiale del 2008, i nodi sono venuti drasticamente al pettine, i disavanzi accumulati negli anni in modalità crescente obbligano diverse nazioni europee a lavorare per pagare quasi esclusivamente i propri debiti, Italia in testa.Istruttiva al riguardo l’analisi svolta recentemente da Oscar Giannino sulla progressione del nostro disavanzo, che durante il 50ennio della Prima Repubblica, quelle che si interrompe nel 1992, si è attestato in media a 49 milioni di euro al giorno, per poi innalzarsi a 200-300 milioni di euro al giorno con la Seconda Repubblica, destra o sinistra che fosse al governo. Il dato sfata il luogo comune che il fardello è stato ereditato dalla Prima Repubblica, anzi, ne è risultata la scusa per poter aumentare lo sperpero generale.Fatto sta che ad oggi, mentre scrivo, ciascuno di noi ha un debito personale pubblico di oltre 31.000 euro, dal neonato all’ultra centenario.Che occorra incidere strutturalmente sul debito è cosa risaputa, tanto che oramai anche gli scolari delle i elementari l’hanno inserito tra le materie di studio. Da dove iniziare e come è tema invece tuttora controverso, almeno per chi si vede costretto a cedere un “pezzetto” del proprio monopolio. Oggi i taxisti, domani i liberi professionisti, dopodomani le reti distributive di servizi, e via dicendo, tutte a rivoltarsi contro, con manifestazioni di piazza, boicottaggi e azioni di lobbyng. Se cambiare tutto per non cambiare nulla è da sempre prerogativa tutta italiana, non ci si dovrà poi rammaricare delle inevitabili conseguenze, che non ci colpiscono tra capo e collo inaspettatamente e per colpe altrui, conseguenze che ogni giorno assumono inopinatamente connotazioni già viste per altri paesi, vedi Argentina e Grecia.Torniamo allo statalismo, alla concezione di stato sociale connotato da un forte dominio e condizionamento delle aziende e dell’economia nazionale, sia attraverso l’aiuto di aziende in crisi, sia mediante il sovvertimento delle leggi che regolano il mercato.Gli effetti generati dallo statalismo è evidente a tutti, con la creazione di mercati protetti, esclusivi, monopolistici, mantenuti tali grazie al rapporto privilegiato con la classe politica. Un mercato monopolista non ha alcuna necessità di migliorarsi, non avendo competitori, e la sua minore efficienza si ripercuote come maggiore costo per l’intera collettività. Peggio ancora quando è lo Stato, nelle sue varie espressioni nazionali, regionali e locali, a farsi mercato, peggio in quanto di norma le aziende create sono gestite con carenti criteri di conduzione aziendale e obiettivi prettamente politici. Proprio su questo ultimo tema si sofferma annualmente, inascoltata, la Corte dei Conti, auspicando l’inversione di tendenza nelle società comunali, quelle che han fatto coniare il neologismo “socialismo comunale”.Ma statalismo è anche l’ipertrofica crescita dell’apparato burocratico e della mole di sussidi, entrambi generatori di due diversi mercati di percettori di reddito a carico della collettività, come ben illustrato da Luca Ricolfi nel suo “Il sacco del Nord”. In tal modo si sono sovvertiti gli assunti di base, di avere una burocrazia al servizio della collettività e non viceversa, nel primo caso; nel secondo di avere una sussidiarietà che favorisca anche il cambiamento del Paese, non che ne blocchi la sua positiva evoluzione.Anche Cesena ha il suo bel “socialismo comunale”, basta scorrere l’elenco delle sue partecipate, che si allunga di anno in anno, buon ultima la Società per l’Energia.Occorrerebbe chiedersi se quanto perseguito da queste partecipate possa essere svolto da società veramente private, affidando in tal modo al mercato la capacità di esprimersi secondo il migliore rapporto costo-servizi, lasciando al pubblico la definizione degli obiettivi, degli standard di servizio e del loro controllo.Che senso ha porre un elemento intermedio, la partecipata appunto, tra ente pubblico e mercato se non per condizionare quest’ultimo? Se ciò nasce da una concezione di sfiducia verso l’attore privato, visto come opportunista e profittatore, attore che quindi deve essere “dominato”, beh sinceramente risulterebbe non poco sorpassata e se attori di tal fatta permanessero ad oggi, molto probabilmente sono retaggio di inconfessabili gestioni di vecchie logiche di scambio. Se invece la partecipata serve per avere mani più libere nella gestione del bilancio comunale, per spostare agevolmente risorse economiche ed umane da quello comunale al bilancio della partecipata, oppure per creare nuove opportunità di lavoro per dirigenti, beh, le condizioni per continuare a farlo si sono, purtroppo per loro e buon per noi, esaurite, per quanto detto sopra.Vediamo l’oggi. Il bilancio del 2012 del Comune di Cesena vedrà l’apporto prezioso della nuova tassa IMU, appunto di una tassa, che si somma al novero delle altre, dirette ed indirette, che gravano su ciascuno di noi, da quelle dello Stato centrale, alle regionali, passando per quelle provinciali e per finire alle comunali.Ai più comincia a pesare il fatto che le Province siano finanziate per oltre il 60% da tasse sulle assicurazioni auto, questa intesa come una mucca da mungere a cui sono state via via aggiunte tante mammelle, ma la cui capacità di produrre latte si è parimenti affievolita. Ma a tanti altri non piace ad esempio che Cesena, con i suoi 97.000 abitanti, sorga agli onori nazionali per avere un Direttore Generale in 18esima posizione per reddito percepito tra gli amministratori pubblici.Quando poi vi sono nel comune tante famiglie in difficoltà, e i tempi che abbiamo davanti non sono certo rassicuranti, è il caso che il Sindaco riveda la sua propensione ragionieristica nel perseguire i suoi obiettivi di mandato e faccia delle scelte di priorità. Ha senso continuare a nominare nuovi direttori per pochi dipendenti, vedi l’ASP, oppure a “piantare alberi” in Piazza della Libertà per oltre 3 milioni di euro, o ancora investire in ulteriori ammodernamenti nell’Ufficio Relazioni con il Pubblico (URP)?Per non parlare del Quartiere Novello, dove si costruiranno centinai e centinaia di nuovi appartamenti, mentre ve ne sono in città alcune migliaia di sfitti. Nuovi appartamenti che solo una loro massiccia, e non poche decine di essi, destinazione ad edilizia convenzionata potrà rendere accessibile alle nuove famiglie di giovani, il soli che possano garantire lo sviluppo economico e sociale del territorio e con esso il mantenimento del suo livello di benessere. I giovani, non certo le partecipate, ed sui giovani che vanno calate le carte da giocarsi.L’augurio, rivolto a tutti i cesenati, è di un loro maggiore coinvolgimento ai temi pubblici che domineranno la scena cesenate nei prossimi mesi, senza pregiudizi e con l’obiettività necessaria che i tempi richiedono. Ce ne sarà bisogno, perché chi è stato investito del comando della città non si faccia sopraffare dall’ebbrezza del comando stesso.Buon 2012, Cesena.Franco Pedrelli