di Luigi Migliori
Leggendo, recentemente, uno studio di un carissimo amico sulla sorte del generale Luigi Capello, ingiustamente accusato per la disfatta di Caporetto, ingiustamente punito dal fascismo, con la non pubblicazione degli esiti della seconda commissione d’indagine, favorevoli al generale Capello, in quanto lo stesso aveva restituita la tessera del pnf, ingiustamente incarcerato dal fascismo come complice dell’ attentato Zaniboni, ingiustamente trattato dai giudici della Repubblica, che rifiutarono agli eredi i riconoscimenti sia dei gradi che della pensione, in quanto, non avendo il generale Luigi Capello partecipato all’attentato Zaniboni, non poteva esser considerato un antifascista, ho meditato sulle miserie di un paese che così tratta un fedele e valoroso servitore.
Particolarmente interessato ai passi relativi alle cause della disfatta di Caporetto, mi ha colpito il parallelo fra la catena di comando tedesca e quella in uso nell’esercito italiano.
Con la riforma gestita dal generale Erich Ludendorff l’esercito tedesco accorcia la catena di comando, portandola a due livelli, comando di divisione e di battaglione, prevedendo , inoltre, la costituzione di piccole squadre d’assalto, composte di undici uomini al comando di un sottufficiale con autonomia decisionale sul campo: pochi livelli, meno equivoci, ampie autonomia e responsabilità personale.
La catena di comando dell’esercito regio prevedeva cinque livelli, corpo d’armata, divisione, brigata, reggimento e battaglione; imitando i tedeschi, nel 1917 apparvero i primi arditi, ( senza particolare rilievo nella battaglia di Caporetto, per la natura eminentemente offensiva e non difensiva del corpo ). Gli innumerevoli livelli favoriscono gli equivoci, reali o voluti, le defatiganti discussioni sulle reciproche competenze, a scapito dell’azione sul campo, la deresponsabilizzazione dei centri di comando: se va bene, siamo tutti bravi, se va male, si trova sempre qualcun’altro cui addossare la colpa.
Riconoscendo la debolezza dell’analogia, il pensiero corre al numero dei livelli istituzionali nostrani: lo stato, le regioni, a statuto ordinario e a statuto speciale, le province, le città metropolitane, i comuni, le comunità montane. Ne conterei sei, forse un numero eccessivo se, come dicono gli esperti, nel resto d’ Europa i numeri sono inferiori.
Quando ragioniamo sui costi della politica, tendiamo a passare dalla diminuzione dei livelli, alla diminuzione dei soggetti in ogni livello; un esempio per assurdo: non l’abolizione delle regioni, ma delle regioni piccole.
Se la pletora di livelli implica equivoci, discussioni sulle competenze e deresponsabilizzazione, sembrerebbe ininfluente la grandezza del soggetto, naturalmente ai fini dell’efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa, come sopra evidenziato nel caso di Caporetto.
Non mi parrebbero valutazioni accademiche, ma carne della nostra quotidianità: riusciamo a comprendere il livello reale d’origine di una determinazione di una ausl? Nel direttore generale della ausl?
Se è di nomina politica, fino a che punto mette la faccia per salvaguardare l’immagine di un amministratore
regionale o comunale? E, così via, discendendo la scala gerarchica, fino all’impiegato allo sportello, nella
stragrande maggioranza dei casi, assolutamente innocente.
Leggiamo continuamente sulla stampa di scaricabarile fra livelli istituzionali, specialmente di fronte a decisioni dolorose, come di improbabili e vanitose primazie se c’è da fare bella figura. Non cito esempi riferiti alla cosiddetta multiutilitY hera, azienda privatistica di soci pubblici, in cui, sarà un limite personale, non avrei mai capito chi comanda: i soci o qualcun’altro?
Stamani, leggendo le notizie economiche sui quotidiani, constaterei l’inutilità della lezione di Caporetto, ma siamo sicuri che si ripeterà la linea del Piave?