di Giuseppe Zuccatelli
La recente istituzione della Azienda Unità Sanitaria Locale della Romagna, che ha mosso i suoi primi passi il primo gennaio 2014 con la confluenza delle quattro ASL di Rimini, Cesena, Forlì e Ravenna, costituisce una formidabile occasione per ripensare l’organizzazione complessiva dei servizi sanitari e sociali dimostrando come una modifica negli assetti istituzionali della Sanità possa essere vissuta come una nuova fase in cui sperimentare il cambiamento. Il punto di vista che qui verrà utilizzato è quello della risposta ai bisogni crescenti di una popolazione anziana che aumenta proporzionalmente sempre di più. Il progressivo invecchiamento della popolazione è un fenomeno noto a tutti le cui cause sono molteplici (ovviamente stiamo parlando di Paesi ancora sviluppati come l’Italia). Sicuramente la principale causa è rappresentata dal miglioramento delle condizioni di vita complessive oltre che, naturalmente, da alcuni effettivi progressi della assistenza sanitaria. Certamente questo fenomeno dell’invecchiamento della popolazione rischia di scontrarsi con quel progressivo impoverimento della società che ormai da qualche anno è iniziato e che rischia di accelerare ulteriormente. Al momento però tutto fa presumere che l’invecchiamento della popolazione continuerà ancora a registrarsi per parecchio tempo. La popolazione che invecchia è una popolazione che ha per sua natura un aumentato rischio di andare incontro alla cosiddetta “cronicità”, cioè alla presenza di pluripatologie costituite da disturbi evolutivi la cui guarigione non può essere perseguita (malattie cardiovascolari, malattie polmonari, diabete, etc.) o lo è dopo terapie particolarmente debilitanti, come nel caso di diverse patologie oncologiche. A proposito di queste ultime, ( la comparsa in nuovi soggetti di forme tumorali), se si analizzano i dati del Registro Tumori di popolazione della Romagna, ha un lieve trend in aumento (+0,6% su base annua), e la maggior parte di esse compaiono maggiormente al crescere dell’età della popolazione, a fronte di una riduzione della mortalità (- 2,25% su base annua), con conseguente aumento delle persone con disabilità, e comunque in carico al SSR. A queste malattie “tradizionali” si è ormai aggiunta poi, con modalità epidemica, la demenza nelle sue diverse forme, a partire dalla malattia di Alzheimer. Naturale conseguenza di questo aumento di pazienti anziani con condizioni di patologia cronica multipla o patologia oncologica è l’aumento dei bisogni assistenziali cui i servizi sanitari e socio-sanitari debbono far fronte. Nonostante le persone con più di 75 anni siano quasi la metà dei ricoverati in tutti gli ospedali, è soprattutto nel territorio che vanno erogati i servizi di cui hanno bisogno. La caratteristica del paziente anziano “complesso” è che l’ospedale rappresenta solo una risorsa temporanea mirata in particolare a dare risposta alla fase acuta della patologia oncologica o alla riacutizzazione in caso di patologia cronica, mentre è fuori dell’ospedale che occorre dare la maggiore risposta ai suoi bisogni, trattandosi di patologie croniche o debilitanti per lunghi periodi. Se prendiamo l’area dell’Azienda Sanitaria Unica della Romagna che ha un bacino d’utenza di circa 1.200.000 abitanti e circa il 12% di essi ha un’età maggiore a 75 anni (circa 144.000 abitanti), si capisce quale possa essere la domanda assistenziale ospedaliero-territoriale a cui essa debba far fronte, tenendo conto solo delle patologie oncologiche e/o croniche multiple. L’erogazione di tutti i servizi ospedaliero-territoriali sopra descritti richiedono in primo luogo una profonda conoscenza della popolazione che richiede tali servizi, al fine da renderli sempre più personalizzati e vicini al cittadino. Uno strumento che sempre più frequentemente viene utilizzato per avere una “fotografia” della popolazione a cui erogare i servizi sanitari è il “profilo di comunità” che, grazie a molteplici informazioni (anagrafiche, sanitarie, ecc.), è in grado di creare un profilo complessivo dei bisogni e delle risorse della comunità in studio. La persona anziana con patologia oncologica o cronica “multipla” (per fortuna non tutti gli anziani si trovano nelle condizioni cui ci stiamo riferendo) ha bisogno in primo luogo di essere quanto più possibile tenuto nel proprio ambiente di vita e nella propria comunità di riferimento. La prima e più importante risposta sta dunque nell’assistenza domiciliare in tutte le sue forme. Ad un certo punto, o in certi periodi, l’assistenza domiciliare non riesce a far fronte ai bisogni complessi del paziente anziano e qui la risposta va data attraverso varie tipologie di strutture residenziali. Nella diversità dei modelli regionali di organizzazione dell’assistenza residenziale, un fattore comune a tutte le regioni è la continuità della assistenza sanitaria diversificata a seconda dei bisogni più o meno impegnativi del paziente. Con l’obiettivo del rientro al domicilio ogni volta che questo sia possibile. Una delle possibili risposte ai problemi dei pazienti con demenza e delle loro famiglie è quella data dai centri diurni che consentono per alcune tipologie di casi un percorso di contenimento della evoluzione della malattia. Questo insieme di servizi domiciliari, residenziali e diurni deve operare in forma strettamente integrata in modo che la persona anziana venga accompagnata e guidata in questo percorso che altrimenti rischia di dover essere gestito in modo frammentario e faticoso da parte dei familiari ed in particolare da parte del cosiddetto caregiver, termine oggi stilizzatissimo per identificare colui o più spesso colei che si prende carico dei problemi di quella persona. Questo dato si spiega considerando 2 dati nazionali: 1.295.000 famiglie hanno almeno un disabile o una persona non autosufficiente e 1 famiglia su 5 ha un anziano con più di 75 anni. A questo punto è chiaro che i problemi degli anziani non autosufficienti sono molto comuni, crescenti e continuativi. Ne deriva che i servizi, che di questi problemi si debbono far carico, debbono essere vicini al suo domicilio ed al suo nucleo sociale di riferimento. Da questo punto di vista è come se emergessero due grandi linee di tendenza nella organizzazione della assistenza sanitaria: da una parte una assistenza ospedaliera ad alta tecnologia dedicata alla acuzie, alla complessità e alla emergenza, dall’altra una rete capillare di servizi che si occupano nel territorio delle persone con condizioni croniche (gli anziani, in primo luogo, ma anche le persone con problemi di disabilità e di salute mentale). La prima rete (quella della alta complessità ospedaliera) va concentrata in modo da garantire economie gestionali e da favorire lo sviluppo di competenze super specialistiche (ampie equipes con ampie casistiche) e viene comunemente identificata come “hospital care”. La riorganizzazione delle strutture ospedaliere dovrà tener conto delle diverse funzioni e delle specialità delle singole strutture al fine di evitare inutili ridondanze, in modo da configurare una distribuzione omogenea sul territorio delle diverse strutture, basata su due concetti inscindibili: la valida risposta in funzione della domanda e la razionalizzazione dei costi. La redistribuzione delle singole funzioni naturalmente dovrà tener conto delle risposte interventistiche alle diverse patologie. Le strutture ospedaliere ad alta complessità dovranno integrarsi tra di loro al fine di creare una rete efficace e in grado di garantire ad ogni cittadino pari opportunità di ingresso alle prestazioni sanitarie. La razionalizzazione delle strutture ospedaliere, che potrà essere intrapresa nel nuova azienda USL della Romagna, consentirà di liberare risorse economiche, permettendo di fruire di strutture che potrebbero essere utilizzate per instaurare una modalità organizzativa capace di essere l’anello di congiunzione tra le strutture ospedaliere ad alta complessità e l’assistenza territoriale. Questa organizzazione, di solito denominata “day care”, svolge soprattutto servizi incentrati sulla riabilitazione. La rete territoriale, che accompagna il paziente nel periodo post dimissione, va invece potenziata, capillarizzata e portata vicino ai pazienti e alle loro famiglie grazie alle risorse liberate dalla razionalizzazione della rete ospedaliera . Ogni diseconomia nella prima rete comporta un abbassamento della qualità e della accessibilità dei servizi nella seconda, in quanto non è pensabile aumentare la spesa pubblica (la spesa sanitaria pubblica in Italia assorbe il 7,2% del PIL nazionale, con una spesa pro capite media di 1842 euro), in un momento storico come quello odierno, caratterizzato da stringenti vincoli finanziari ed economici. La rete territoriale, denominata anche “home care”, non deve essere vista come la risposta di serie “B” alla domanda di salute dei cittadini, seconda alla rete ospedaliera. L’aumento della popolazione ultra 75enne, pur costituendo un fenomeno inevitabile, non deve essere necessariamente responsabile di un aumento del consumo di risorse. Alla luce di ciò, il ruolo principale della rete territoriale è quello di prevenire o ridurre al minimo la non autosufficienza, in quanto l’insorgenza di una patologia cronica o lungamente debilitante non è un fenomeno da subire come inevitabile. La non autosufficienza si previene di solito con interventi che in generale tutelano anche rispetto alle singole malattie tradizionali. Per esempio una attività fisica adeguata all’età con una corretta alimentazione (dando per scontato che il fumo sia sempre considerato come fattore di rischio da contenere a tutti i costi) prevengono tanto le malattie cardiovascolari quanto (pare) le demenze che con quelle malattie condividono alcuni fattori di rischio. Per quanto possa apparire “stravagante” la prevenzione non solo paga nel giovane (che ha una lunga aspettativa di vita), ma anche nella persona anziana che può così posticipare e magari evitare la comparsa di quelle condizioni croniche cui ci siamo più volte riferiti. Qualche considerazione ancora. La risposta ai problemi posti dall’invecchiamento della popolazione richiede una mobilitazione della società nel suo complesso. Ogni sforzo va prodotto perché le condizioni di vita degli anziani anche quando non autosufficienti vengano tutelate al massimo. Faccio solo alcuni esempi. La domotica – e quindi la tecnologia utilizzabile nell’ambiente di vita – può fornire un grosso contributo a rendere le abitazioni più adatte ad una persona anziana ed essere anche utilizzata per riorientare la produzione di settori industriali in crisi. Sempre per rimanere nell’ambiente di vita si possono immaginare interventi anche non tecnologici per rendere l’abitazione più adatta e meglio fruibile da una persona con problemi di spostamento e di autonomia. Un altro esempio ancora: la scuola può essere la sede in cui fare incontrare le due fasce estreme della vita. Sviluppare la solidarietà intergenerazionale vuol dire offrire ai più giovani l’esperienza dei più anziani e agli anziani lo stimolo vitale dei più giovani. La popolazione che invecchia non è in definitiva solo un problema (certamente in parte lo è), ma anche una grande opportunità. Ripensare i modelli sociali,e non solo sanitari, perché tengano conto di questo fenomeno demografico potrebbe portare ad una società più adatta ai bisogni di tutti. Anziani e non anziani.
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