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Ancora recessione?

     Dicembre 21, 2018   No Comments

Energie Nuove – NUMERO 2 – novembre 2018

Ancora recessione?

di Enrico Cisnetto

L’economia è a rischio crack, ma la politica pensa ad altro. Fin dal suo insediamento del cosiddetto “governo del cambiamento” ha iniziato una lunga battaglia con l’Unione europea, combattendo una guerra prima di dichiarazioni, poi sul mancato rispetto degli impegni sulla finanza pubblica, infine sulle misure contenute nella prima manovra dell’esecutivo 5stelle-Lega. Mesi spesi a polemizzare in una bagarre tutta politica che, oltre a ridurre le possibilità di compromesso, è stata combattuta su un campo di battaglia decisamente artificioso, quello delle previsioni economiche. Per l’Italia, infatti, c’è una bomba pronta ad esplodere, che non è qualche decimale di sviluppo in più o in meno, ma la terza recessione economica di questo secolo, prospettiva che sembra essere totalmente ignorata da tutti. Purtroppo, come al solito, si prescrivono cure salvifiche e si parla per mesi di eventuali terapie senza adeguate diagnosi preventive.

Il rumoroso conflitto tra Roma e Bruxelles, che a tratti è divenuto istituzionale, si basa infatti sulla differenza di stime di crescita del pil: ottimistiche quelle di Roma (+1,5% nel 2019, +1,6% nel 2020 e +1,4% nel 2021), più prudenti quelle di Bruxelles. Le previsioni economiche, si sa, di solito sono meno attendibili di quelle astrologiche. Ma il rischio è che, in questo caso, entrambi i litiganti abbiano sovrastimato il futuro. E sì, perché sia Roma che Bruxelles prevedono comunque una crescita dell’economia italiana – a dividerle è una differenza di circa mezzo punto – mentre, per noi, il vero rischio è che di crescita non ce ne sia proprio, né poca né tanta. L’ultima rilevazione Istat, relativa al terzo trimestre 2018, ci dice infatti che siamo entrati in una fase di stagnazione come non accadeva dal 2014, e sempre dall’Istat – cioè da un soggetto terzo e imparziale – abbiamo appreso che con buona probabilità gli ultimi tre mesi dell’anno avranno il segno meno davanti. Lo pensa anche la banca londinese Barclays, che nell’ultimo trimestre quantifica un calo dello 0,14%. E non si contano più gli istituti che hanno rivisto al ribasso le stime sull’Italia: dall’Ocse all’Fmi, da Bankitalia a Confindustria e Confcommercio, dalle agenzie di rating alle grandi banche commerciali internazionali. Il dato che vede la produzione industriale arretrare dello 0,2% a settembre, e nella stessa misura l’intero terzo trimestre dell’anno, è una conferma che il passaggio dalla stagnazione alla recessione ha tutte le premesse.

Il fatto è che tutti sono d’accordo che stiamo rallentando, ma purtroppo non c’è abbastanza consapevolezza che se entriamo nel 2019 già in retromarcia, sarà poi difficile evitare l’avvitamento recessivo. E poiché per entrare formalmente in recessione occorrono tre trimestri negativi di seguito, ecco che molti hanno cominciato a ipotizzare che a giugno prossimo, tra l’altro quasi in coincidenza con le elezioni europee del 26 maggio, saremo di nuovo in recessione.

Le spie rosse che precedono l’arrivo di una burrasca in arrivo ci sono tutte. Le esportazioni stanno crollando, i consumi interni sono stagnanti, la produttività è ferma da vent’anni. Ma più di ogni altra cosa, è l’elevato grado di incertezza politica a frenare le imprese, bloccando gli investimenti non solo in ragione del peggiorato clima psicologico, ma per effetto del credit crunch strisciante in corso, figlio sia della pesante avversione del governo nei confronti delle banche, ma anche e soprattutto dello spread ormai stabile a 300 punti. Quest’ultimo, infatti, oltre ad esserci già costato un miliardo e mezzo fino a qui (stima Bankitalia) e in ipotesi fino a 20 miliardi di maggiori interessi sul debito nel triennio 2018-2020 (secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio), è una zavorra micidiale proprio per gli istituti di credito che, pieni di titoli di Stato, rischiano di ritrovarsi bond spazzatura in caso (probabile) di downgrade. E per questo hanno già cominciato a (ri)chiudere i rubinetti del credito alle imprese.

Siamo entrati in una spirale negativa e tira una brutta aria di recessione. Ne saremo colpiti? Impossibile a dirsi con certezza. Ma considerarla un’evenienza possibile e per molti versi probabile, è perfettamente lecito sostenerlo e anzi legittimo se si vuole tentare di bloccarla sul nascere. Come? Non certo con quanto è contenuto nella manovra: con quell’abbondante e maldestro welfare assistenziale e con quel po’ di investimenti non ben identificati, si fa deficit senza fare crescita. Non c’è nulla di keynesiano, nell’accrocchio del governo gialloverde. E per la verità, nessuno si è azzardato a definirla tale: né il presidente Conte, che però l’economia non l’ha mai studiata, né i vicepresidenti Salvini e Di Maio che forse non sanno neppure chi sia John Maynard Keynes, né tantomeno il professor Tria, che sa benissimo che provvedimenti che si illudono di stimolare la crescita attraverso aumenti della spesa pubblica corrente in deficit hanno scarsi effetti sulla crescita.

Anzi, le maggiori uscite e il maggiore debito che derivano dalle misure del governo gialloverde paiono esclusivamente mirate a rafforzare il consenso della coalizione sovranista in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. Tuttavia qualcuno, nel governo (il ministro Savona) ma anche a sinistra (Fassina), ha tentato di farci credere che con il reddito di cittadinanza e la cancellazione della Fornero saremmo di fronte ad una sorta di palingenetico New Deal, anche se non si vede nessun novello Franklin Delano Roosevelt all’orizzonte. Gli altri, più prosaicamente, hanno parlato di “rivoluzionario cambiamento”. Peccato, invece, che si tratti di volgare continuità con il passato che ci ha portato nel terribile declino in cui siamo sprofondati da oltre un quarto di secolo.

Ecco, la manovra non è da stravolgere perché ce lo impone l’Europa, ma per evitare la recessione e, soprattutto, per cambiare verso alla nostra politica economica e, possibilmente, anche a quella europea. Se c’è chi, nel governo, tutto questo lo capisce – non lo crediamo, ma alla provvidenza non bisogna mai sbarrare la strada per prevenzione – allora sia conseguente e si dia subito da fare. Se invece, come è più probabile, prevale la somma tra i tanti che non lo capiscono e alcuni che non lo vogliono capire, allora sarà bene che siano gli italiani a suonare la fine della ricreazione.

 

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