di Davide Giacalone
Se guardassimo noi stessi con un po’ di distacco, se potessimo valutare la condizione dell’Italia senza l’ovvio coinvolgimento dell’essere italiani, vedremmo alcune cose non nitida evidenza. La prima è che il sistema produttivo, indebolitosi per oltre tre lustri, rimane fortissimo. La seconda è che nulla c’impedisce di riprendere a correre, se non l’esserci legati a pregiudizi e paure del passato. Abbiamo bisogno di spezzare le catene del mercato interno, senza per questo accedere alla più che stolta idea di far crescere la spesa e il debito pubblici. Abbiamo bisogno di darci istituzioni ispirate al timore di non perdere concrete occasioni del presente e del futuro, non la terrore di pericoli che appartengono al passato. La domanda è: può servirci, in tal senso, l’assetto politico realizzatosi e, in quello, il governo di Matteo Renzi? La risposta è: sì e no.
Può servire, eccome, se saprà far seguire i fatti alle parole. Ma le parole fin qui usate sono non solo promesse, ma anche promettenti. E’ un dato positivo. Nel varare le riforme necessarie, che vanno dal fisco alla giustizia, il governo in carica è forte di una debolezza italica: l’assenza di credibili alternative. Non è molto, ma è abbastanza. Se non ne sarà capace avrà perso un’occasione preziosa. Per tutti, non solo per chi sostiene il governo in Parlamento.
Quanti credono che il governo sia forte di un diverso atteggiamento dell’“Europa”, nei nostri confronti, è non solo un provinciale, ma ancor prima un analfabeta. L’elasticità della politica economica non è da attendersi quale balocco donato dai tedeschi (che già solo dirlo consegna loro una centralità capace di distruggere l’unione europea), ma da conquistarsi mediante il taglio vigoroso della spesa pubblica corrente e un credibile programma di abbattimento del debito. Si può. In molti settori del welfare state tagliare non solo è possibile, ma salutare. A cominciare dalla sanità, per venire velocemente alla scuola e alla giustizia. In quanto al debito, se solo chi scrive e parla usasse anche leggere, sta scritto nel Fiscal Compact che può esserci elasticità. Sia relativamente alla congiuntura che ai tempi. Abbattere il debito (eccedente il 60% del pil) di un ventesimo l’anno, per venti anni, significa concentrare lo sforzo nei primi anni, quando ancora morde la recessione (esempio: se di una torta ne mangio metà al giorno è evidente che il primo giorno ne mangerò metà, il secondo un quarto, il terzo un ottavo, poi un sedicesimo, fino a dividere una briciola; ottengo lo stesso risultato se dico: la mangio tutta in venti giorni, evitando d’ingozzarmi il primo). Inoltre, l’Italia ha un debito patologico, ma anche un superiore patrimonio alienabile: si potrebbe chiedere la creazione di un fondo europeo, che assuma patrimonio in cambio di liquidità (destinata al debito), in modo da mettersi subito al passo del trattato.
Si tenga anche presente l’opportunità del 20-20-20: 20% di pil da manifatturiero, entro il 2020, obiettivo che si troverà nell’Industrial Compact. Noi italiani siamo quelli più avanti, trovandoci già poco sopra il 16 (ma con regioni che sono sopra il 20, e non solo al nord). Queste opportunità il governo può coglierle, se agirà con lucidità, determinazione e coraggio. Le condizioni ci sono. La capacità vedremo.
La risposta è “no”, invece, se veniamo al piano costituzionale. Tutto quel che funziona ed è convincente, in Matteo Renzi, ha un’impronta fortemente presidenzialista. L’uomo scelto dal popolo, azione di governo personalizzata, ministri strumentali alla politica del presidente e non dotati di significativa forza propria. Quel che è meno convincente, e non funziona, è legato alla schema della rottamazione, alla dicotomia cambiamento-conservazione, ma senza che sia chiaro in che consista. Da qui un’abborracciata riforma del bicameralismo, una bislacca proposta per il sistema elettorale (più conservativa che innovativa), una pasticciata idea dell’immunità parlamentare (la Corte costituzionale non è preposta a giudicare le persone, e quando questo era previsto, per i ministri, nell’originario articolo 135, si stabiliva l’integrazione con 16 membri esterni, non magistrati), la raffica di decreti che hanno denominazioni apparentemente rivoluzionarie. Tutto come quei giorni di afa in cui il cielo s’annuvola, i tuoni si moltiplicano, la voglia di pioggia crescere, ma dall’alto non si minge una goccia, lasciando tutti a sbrodare nell’umidità e a maledire l’illusione. Il presidenzialismo è renziano, se mi passate la volgare semplificazione. Ma lo propone la destra. E, secondo “ma”, non può certo passare dalla cruna del 138 (articolo della Costituzione che ne regola la riforma). Neanche la cancellazione o l’atrofizzazione del Senato, però, potrebbe passare da lì. Tanto più che il 138 è stato concepito per un Parlamento eletto con il sistema proporzionale. Avete idea di cosa può succedere con un 138 immutato in una Camera eletta con premio di maggioranza e un Senato nominato? Roba da far tremare. Ragionando, si vede l’uscita. Ci fu una sinistra presidenzialista. Quella del Partito d’Azione, di Pietro Calamandrei e Leo Valiani. Tutto si poteva sostenere, tranne che non fossero dei democratici. Ma la sinistra prevalente, comunista e socialista, ha sempre considerato il presidenzialismo una specie di teoria fascista. Giunsero al punto di dare del fascista, perché presidenzialista, a Randolfo Pacciardi, eroe della guerra di Spagna e poi di quella partigiana, certamente mille volte più democratico di tanti stracciavestaioli comunisteggianti. Ciò capitava per una ragione precisa: quei partiti contavano perché centrale era il Parlamento e lì si facevano gli accordi, sopra e sotto il banco. Col piffero che avrebbero mollato tale rendita. Ma è finita. Da un pezzo. Lo aveva capito e praticato Bettino Craxi, non a caso, anche lui, raffigurato da fascista. Ora lo sa e lo dice anche Renzi, che di Craxi è un continuatore post-berlusconiano. Bene.
Siccome, a quel che sembra, non si sa mai, pare che il presidenzialismo sia divenuta la posizione di Forza Italia, ecco che con un po’ di coraggio e determinazione si potrebbe anche riuscirci. Ma farlo passare con il 138 è abominevole. Con tutto il rispetto: non è che il testo della Carta possa dipendere dai casi-Mineo, in un senso o nell’altro. I Costituenti, del resto, lasciarono la porta aperta alle riforme, non alle riscritture. Per non sprecare le possibili convergenze, allora, si deve avere la lucidità di portarle davanti agli elettori. Ecco come: dal 138 si fa passare un’Assemblea ricostituente, composta da 101 ricostituenti (così vanno alla carica), con un anno di tempo a disposizione.
Questo iter può essere completato entro la prossima primavera, quando gli italiani potranno essere chiamati al voto (tanto ci saranno le regionali), senza che questo in nulla coinvolga il governo. Ciascuno si presenterà dicendo: a. il modello che preferisce (presidenzialismo, semi-presidenzialismo, parlamentarismo, federalismo, etc.); b. quali menti e competenze ha scelto per redigere il testo. Nulla proibisce di candidare pizzicagnoli, salvo trovare elettori disposti a farsi curare il diabete dai medesimi. Si vota con il sistema proporzionale (l’unico lecito per le costituenti). A fine 2016 avremmo un testo nuovo. Il che renderebbe utile il ricambio parlamentare, come quello al Quirinale. Il tutto in modo serio, trasparente, guardando al futuro e senza lasciare troppo spazio a bimbi bizzosi e capricciosi, ieri interpreti dell’epiteto e già pronti per l’epitaffio.
E la riforma già impostata dal governo? Quella roba porta e va a finire male. I governi non cambiano le costituzioni (ci sarà pure qualcuno che se ne ricorda!). E’ solo il gioco del cerino, acciocché qualcuno si prenda la responsabilità della rottura. Fa guadagnare tempo nella speranza che porti anche guadagni elettorali. E’ la quintessenza della conservazione. Ma del peggio. Meglio mollare quel che sa di marcio ancor prima d’essere colto.
Vista con un po’ di distanza l’Italia è ribollente di forza e iniziativa, ma imbottigliata in miti e riti oramai fuori dalla storia e dal mondo. Da una parte ci sono i cultori della bottiglia, dall’altra i cantori della rottura. Due scelte sbagliate. Siamo figli di una storia spesso attraversata da fremiti settari, da passioni faziose. Ci diamo un avversario e siamo pronti a tutto pur di vederlo fallire. Anche a fallire con lui. Nella nostra storia, però, c’è anche dell’altro, compreso il fatto che sono Made in Italy le regole basilari del capitalismo, l’innovazione che ha migliorato il mondo, la ragionevolezza che ha governato una crescita economica straordinaria. Dobbiamo solo riprendere a ragionare con la voglia di costruire e non di distruggere. Il che comporterà, ad un certo punto, la necessità di rimettere in ordine i conti della storia. Non occorre farlo subito, ma è bene sapere, fin da ora, che non si devono ripetere gli errori fatti con il Risorgimento e con il fascismo e la Resistenza. Mentire sulla propria storia è da pazzi. E rende pazzi.