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Uguale libertà per diverse concezioni della vita

     Giugno 26, 2017   No Comments

di Denis Ugolini

È in corso un dibattito, non da poco tempo, ma in questo momento più acceso che in altri, su questioni di particolare interesse. Laura Bianconi lo apre anche per le nostre pagine con la lettera che qui pubblichiamo. Questioni eticamente sensibili. Riguardanti la vita e la morte e la concezione che si ha di esse. Che pure non sono questioni slegate. Non c’è l’una senza l’altra. E comunque si deve morire. La morte è la naturale conclusione di un processo di vita e “ ciò che non muore, non vive”. Quel che si vorrebbe è che la nostra vita fosse di valore, tranquilla, serena, la migliore possibile. La più lunga possibile. Vissuta con dignità. Che la morte, che comunque ci tocca, fosse anch’essa la più tranquilla possibile. Magari priva del dolore al quale molti l’associano e che soprattutto per questo tanto la fa temere. Personalmente non temo la morte. Temo il dolore. Il dolore cruento del corpo e quello dello spirito. Temo il dolore che deriva dalla menomazione della vita, dalla radicalità che impedisce di vivere, di vivere in modo dignitoso, che io sento dignitoso, che sento di valore. Se sentissi che la mia vita non ha più alcun valore; che invece di una vita dignitosa sarebbe solo il trascinare un’esistenza amorfa senza alcuna dignità, questo sì che sarebbe un dolore impossibile tutt’altro che associabile alla morte che invece anelerei come straordinario e benefico atto di liberazione, di ultimo atto di vita piena. La invocherei. La sceglierei. Deciderei fra la mia vita ed una esistenza senza vita. E se fossi nell’impossibilità di provvedere a me stesso in conseguenza di una o più di quelle radicalità di menomazione ( che può vestire diversi e variegati abiti), vorrei che fosse possibile che “altri” potesse dar corso alla mia scelta libera e pienamente cosciente. Considererei irragionevolmente vessatorio che, solo per il fatto che mi è impossibile da solo, altri non sentisse il dovere e la solidarietà di dare corso alla scelta della mia libertà e che, invece, determinasse proprio la sopraffazione di quella, l’annullamento e la sopressione di quella libertà che è così linfa profonda della vita vissuta. È la mia concezione. Il mio sentire. Il mio consapevole pensiero. Che, sono certo, tanti altri non hanno equale e non condividono. Avendo altre e diverse concezioni. Che io rispetto. Che devono essere assolutamente rispettate e tutelate. Non deve essere sopraffatta e lesa la libertà di ognuno di attenersi, uniformarsi e vivere la propria concezione della vita. È un rispetto totale che ho. Sarei pronto a tutto per fare sì che quelle libertà non fossero precluse. Non ha alcuna importanza se sono diverse le nostre concezioni di vita. Non è diversa la libertà che abbiamo e dobbiamo avere di nutrire diverse concezioni. Che non ci hanno impedito e non ci devono impedire di continuare a vivere in un sistema di convivenza condivisa. Ed essa lo è in quanto rispetta le reciproche e le diverse libertà individuali, di pensiero, di credenza o non credenza, teologiche, religiose, ideologiche, politiche. Ho riflettuto molto e da molto tempo intorno a queste così complesse e straordinarie questioni. Attraverso diversi stadi della mia anagrafe ed anche passando attraverso i più disparati stati d’animo che talvolta inducevano ad approfondire e ad indagare ulteriormente, ed altre volte, magari, erano semplicemente seguenti ed effetto di quelle prolungate riflessioni. Anche attraversando momenti e vicissitudini che mi hanno portato, per così dire, più prossimo a queste problematiche, più a contatto con i molti che le vivono e le affrontano ognuno con una propria sensibilità e nella propria originale soggettività. Mi si sono dischiusi piani di approfondimento ulteriore e soprattutto mi si è aperto una ulteriore diga di emozioni, per cui il riflettere e ragionare non era solo un esercizio per così dire intellettuale e filosofico ( nel mio caso è bene dire pseudo-filosofico data la mia modesta levatura in materia e sul piano generale della conoscenza e della cultura). Riflessioni che incrociavano, interconnettevano emozioni, sentimenti fortissimi, fra i quali quello di pietà nei confronti del dolore vissuto ed insopportabile con il quale tanti si misurano e devono misurarsi. Rispetto ai quali, tutti dobbiamo avere un forte dovere di solidarietà e di aiuto effettivi. Ne ho ricavato e continuo a trarre questa forte convinzione che ho cercato seppur con il tratto limitante del mio ristretto linguaggio di esprimere. Sinceramente e convintamente. Ho creduto doveroso partire da qui per stare seppur con coscienziosa umiltà nel dibattito che tu, Laura, apri in queste pagine, così importante e stimolante. E di questo ti sono molto grato. In questo modo ho marcato, credo, da subito, la differenza sicuramente anche assai profonda che è delle nostre posizioni e delle nostre convinzioni. Che tuttavia possono e devono dialogare e confrontarsi. Condizione necessaria perché siano esplorate le possibilità di punti condivisi che sicuramente ci sono e possono ulteriormente trovarsi. Lungo lo scorrere di un tempo denso di tali mutamenti e trasformazioni, in specie in campo scientifico, medico e sanitario, che aprono orizzonti spesso nuovi ed inesplorati che consentono a tutti di fare riflessioni con essi più attinenti e confacenti. Il fatto stesso che tu arrivi alla proposta di legge che hai fatto e che così cortesemente mi hai consentito di leggere e studiare, consente di avvalorare l’esistenza di un processo più avanzato di più diffusa sensibilità ed interesse intorno a problematiche che solo in alcuni tempi più recenti sarebbero state semplicemente scansate se non addirittura tabù.

Sono andato a riprendere quanto scrisse Indro Montanelli alcuni mesi prima della sua morte proprio sull’eutanasia. Come vedi vado subito al cuore del problema intorno al quale ruotano le tue stesse argomentazioni che sono proprie del tuo credo che io rispetto profondamente, e lo sai.

Mi è tornato alla mente il grande giornalista, perché quello che scrisse lo condivido tutto e pienamente. Montanelli scriveva ad un lettore che gli attribuiva una critica nei confronti della Chiesa. Scritto ripreso anche nel libro di Umberto Veronesi “ Il diritto di morire. La libertà del laico di fronte alla sofferenza”. “ Io non mi sono mai sognato – scriveva Indro Montanelli – di contestare alla Chiesa il suo diritto a restare fedele a se stessa, cioè ai comandamenti che le vengono dalla Dottrina. Ch’essa sia contro l’eutanasia perché la Dottrina, cioè il Verbo attribuito al Signore, prescrive che l’uomo debba ignorare il giorno della propria morte, è più che naturale, e non vedo come potrebbe essere altrimenti. Ma ch’essa pretenda d’imporre questo comandamento anche a me che non ho la fortuna ( e prego di fare attenzione alle mie parole: dico e ripeto non ho la fortuna) di essere un credente, cercando in ogni modo e attraverso tutte le influenze di cui dispone – e che non sono, come lei sa, poca cosa – di travasarlo nella legge civile, in modo che diventi obbligatorio anche per noi non credenti, le sembra giusto? A me, no. A me sembra che l’insegnamento della Chiesa debba valere per chi crede nella Chiesa, cioè per i “fedeli”. Ma non per i “cittadini”, fra i quali ci sono – e in larga maggioranza – i miscredenti, gli agnostici, i seguaci di altre religioni. Perché costoro devono adeguarsi a un “credo” nel quale non credono? La Chiesa ha tutto il diritto di continuare a predicarlo e di fare tutti i suoi sforzi per svogliare, per esempio, i medici dal praticare la cosidetta “ dolce morte” anche nei casi in cui la vita è diventata, per il paziente, una tortura senza speranza. Finch’essa opera e si appella alla Legge Divina, è libera di dire e fare ciò che vuole. Ma quando cerca di influenzare la Legge Civile, commette un abuso perché toglie al cittadino una scelta che gli appartiene”.

Di fronte a leggi come quella olandese, per la quale l’eutanasia, rispettate certe condizioni, non è un reato, taluni sono portati ad inscenare equivoci del tipo addirittura di una specie di “ suicidio di Stato”. “ questo è un equivoco – diceva il grande giornalista – al quale non posso rassegnarmi. “La mia opinione è semplicemente questa: che quando un invalido, per qualunque motivo lo sia, non ha più la forza di sopportare le sofferenze fisiche e morali che l’invalidità gli procura, e senza speranza di sollievo se non quello procurato dagli analgesici, ha il diritto di esigere dal medico il mezzo per abbreviare questa Via Crucis; e il medico ha il dovere di fornirglielo, sia pure riservandosi la scelta di una procedura che lo metta al riparo dalle conseguenze penali di una legge che andrebbe, come tante altre, aggiornata; ma che nessun Parlamento, né presente né futuro, mai sarebbe capace di affrontare senza trasformarla in una rissa di partito a scopi puramente demagogici ed elettorali”. L’unica cosa che non vorrei condividere con Montanelli è questo suo irriducibile pessimismo nei confronti delle iniziative future del nostro Parlamento che, mi auguro, possano contraddirlo anche se molto in ritardo rispetto alla sua dipartita. Sotto quel titolo “Due o tre cose sulla dignità” Montanelli mise anche la battutta. “ Lo dico nei termini più espliciti: per dignità intendo anche

(dico “anche”) l’abilitazione a frequentare da solo la stanza da bagno”. Nessuna banalità, perché essa sintetizza la penosa situazione di perdita di autonomia alla quale ho fatto riferimento all’inizio. È mia convinzione e rivendico anch’io, con Luca Goldoni “il diritto di andarmene appena viene il buio, decidendolo ora, quando la luce è ancora accesa”. Il problema si pone così come si pone il dolore, la sofferenza, la perdita di dignità della vita. Anche la qualità della vita è soggettiva non è un clichè che si impone a tutti in un modo solo. Ideologicamente o religiosamente. Si pongono queste questioni a fronte dei mutamenti intervenuti nella nostra vita in seguito alle scopete scientifiche e mediche che hanno determinato la possibilità stessa di interferire nel processo di vita. Alcuni decenni fa riscontravamo due concetti di morte. Quella per malattia e quella per evento violento. Oggi potendo curare molto, ma non per questo potendo guarire tutto, si è arrivati ad allungare e procrastinare l’esistenza anche oltre certi limiti naturali. In molti casi, dove pure il processo di vita è giunto al suo termine naturale, dove la morte sarebbe l’inevitabile esito se solo si lasciasse procedere il naturale corso degli eventi, sono possibili interventi che interrompono ed allontanano questo esito ultimo. Artificiali interventi possibili grazie alle scoperte scientifiche e alla dotazione di strutture tecnologiche consentono di oltrepassare i limiti “usuali” che riconducevano a quei concetti. Ciò pertanto ha aperto uno spettro più ampio di circostanze e possibilità che impegna la ragione e la morale di tutti noi. Da tempo ci troviamo di fronte a casi che inducono complesse e difficili riflessioni. Esistenze che si prolungano artificialmente talune nella completa assenza di attività cerebrali, di percezioni emotive. Nella assenza totale di una coscienza di sé. Altre che implicano la convivenza con il dolore e la sofferenza continue, fisici e spirituali. In presenza di una coscienza piena di sé che a volte si impone di reagire a quello stato, che vuole reagire ad esso, sospinta dalla forte speranza di vita, dall’amore e dagli affetti che sono intorno, o da qualsiasi altro si voglia e ci sia che costituisce linfa, spinta, motivazione. Che chiedono e non disdegnano l’uso di sostanze che riducono attenuano o eliminano il dolore. O che le rifiutano per qual si voglia loro ragione. Che avvalendosi di analgesici ed antidolorifici hanno coscienza, oppure non l’hanno, o semplicemente non si pongono la questione, che mentre alleviano temporaneamente dolore e sofferenza, contemporaneamente possono determinare ed influire sul percorso della loro stessa esistenza, accorciandone la lunghezza. E ci sono persone che non sopportano, invece di trascinare una esistenza oramai solo carica di dolore e sofferenza inauditi, sia fisici che spirituali. Che non intendono più di fronte alla irreversibilità di quel loro stato che può solo acuirsi e trascinarsi in perdurevoli tormenti, che vogliono farla finita, che non accettano di essere oggetto di accanimento e di cure che sono solo sempre più miseri palliativi di riduzione momentanea del solo dolore fisico. Che in piena coscienza di sé non sopportano e non vogliono più trascinare un’esistenza di dolore in assenza di una vita che con quella non può confondersi, né essere di essa sinonimo. La vita e la morte, per il progredire della scienza e della tecnica sono sempre più fenomeni anche artificiali. Il testamento biologico è questione importante e di assoluta attualità e necessità. “ Il primo passo verso il riconoscimento legale di questa nuova realtà del rapporto medico paziente è stata l’introduzione del consenso informato alle cure, ovvero che nessun medico può somministrare un trattamento a un malato senza prima averlo informato dei risultati previsti, dei rischi connessi e degli effetti collaterali legati alla cura stessa. È un diritto del malato ed un obbligo del medico. Divenuto “regola di vita”, il consenso della persona permette una responsabilità di sé che copre tutto l’arco dell’esistenza e diviene così anche la regola fondamentale del morire”

“Siamo di fronte a fenomeni artificiali e culturali che hanno bisogno di normative giuridiche capaci di conciliare i desideri dei singoli con gli interessi della collettività. Scienza e tecnica – per dirlo con Scalfari – continuano e continueranno ad evolversi, a sperimentare a consentire opzioni sempre migliori, ma non vogliono né possono sotituire la natura. Se non altro per il fatto che l’umanità, la specie e gli individui che ne sono parte, è una delle innumerevoli forme della natura.

Scienza e tecnica sono prodotti mentali dell’uomo e quindi protesi della natura. In questo stadio dell’evoluzione esistono zone grigie dove le protesi consentono risultati al prezzo di sofferenze e/o limitazioni a volte sopportabili, a volte radicali. Di fronte ad esse l’individuo rivendica legittimamente libertà di scelta: se accettare le soluzioni o rifiutarle. Piena libertà ai depositari di fedi religiose di indicare e raccomandare soluzioni conformi all’etica da essi predicata senza però che quelle soluzioni possano essere imposte a chi (fosse uno soltanto) non condivide quelle raccomandazioni. Questo è il limite di uno Stato laico, pluralista e non teocratico”.

È bene e doveroso si sviluppi questo confronto dal quale è bene siano tratte soluzioni appropriate, legislative e giuridiche. Ma è mia convinzione che esse debbano collocarsi in questo quadro e nella forte e condivisa consapevolezza che non vi devono essere soluzioni che si impongono, ma libertà che si tutelano. Spero vivamente che il Parlamento affronti queste questioni, quella del testamento biologico, facendo seri e concreti passi avanti rispetto all’attuale impasse ed assenza legislativa. Spero lo faccia avvalendosi di un ampio e ricco confronto di posizioni e di sensibilità: E che faccia tutto questo sapendo che deve legiferare non per obbligare alcuno ma per tutelare i diritti e le libertà di tutti.

  •   Published On : 7 anni ago on Giugno 26, 2017
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  •   Last Updated : Giugno 26, 2017 @ 9:10 pm
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