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Il debito pubblico e le colpe della politica

     Novembre 29, 2017   No Comments

Energie Nuove – NUMERO 2 – novembre 2017

Il debito pubblico e le colpe della politica

di Emanuele Tonini

Quando Carlo Cottarelli preconizzava un aumento del debito pubblico italiano anche per l’anno 2017 non erano in tanti a credergli. Le stime del Fmi per i primi sei mesi mostravano infatti una discesa dello stesso, dando l’occasione alla politica nazionale di gonfiare il petto e dimostrare così la bontà delle politiche economiche degli ultimi anni. Era il 6 giugno e Cottarelli, invitato a Cesena dall’associazione Paese Nuovo per parlare del suo ultimo libro, “Il Macigno” (edito da Feltrinelli), non si scomponeva davanti a questi dati, e spiegava come le premesse contenute nella legge di bilancio 2017 non fossero in realtà affatto buone.

Aggiornate le stime all’11 ottobre, si scopre che il debito pubblico continua a salire e che questo influisce anche sulla crescita potenziale dell’Italia nei prossimi anni. Queste previsioni non sono frutto di chissà quale capacità divinatoria dell’ex commissario alla spending review e membro esecutivo del Board del Fondo Monetario Internazionale, bensì di una lettura dei segnali macroeconomici che, con una corretta informazione, chiunque potrebbe compiere. Ed è questo il punto fondamentale che traspare sentendo parlare Cottarelli: informare la collettività, cambiare il paradigma comunicativo che alimenta il dibattito nazionale sui temi economici. Quasi tutti i politici che sentiamo parlare nelle reti e sui quotidiani nazionali chiedono una “maggiore flessibilità sui conti”, una possibilità di andare a debito per produrre ricchezza; perché invece non incominciare a dire davvero le cose come stanno, e da lì ripartire con una maggiore e più piena consapevolezza di quello che ci aspetta?

A Cesena Cottarelli ha evidenziato una serie di elementi che non si sentono tutti i giorni. Molto interessante ad esempio è stata la comparazione tra il nostro debito pubblico (ora oltre il 133%, livelli raggiunti solo al tempo dell’Unità d’Italia e durante la Prima Guerra Mondiale) e quelli simili al nostro, con particolari affinità con la situazione greca. Ha spiegato, in maniera semplice e diretta, che avere un debito pubblico elevatissimo frena la crescita anno dopo anno, ed espone a rischi enormi nell’eventualità di una nuova crisi dei mercati finanziari. Rischi peraltro molto peggiori rispetto alla recessione del 2011-2012, perché nel frattempo il debito pubblico è aumentato, il reddito pro capite è diminuito, i problemi strutturali che avevamo non sono stati risolti; e infine perché, fino ad ora, abbiamo goduto di massicce immissioni di liquidità nel mercato dei titoli di Stato, volute dalla BCE di Mario Draghi, il cui mandato tuttavia scadrà nel 2019. Ha inoltre sottolineato che la crisi del 2011 e 2012 ha toccato solo i paesi a più alto debito pubblico, che è stato causa e non conseguenza (come si sente spesso dire da politici ‘’disattenti’’) della recessione di cui ancora portiamo i segni.

Ha spiegato inoltre come esistano nella teoria varie soluzioni di comodo per ridurre il debito pubblico (le cosiddette “scorciatoie”), alcune di queste portate avanti dai partiti più euroscettici, che tuttavia non risolverebbero il problema. Rimando alla lettura del libro “Il Macigno” per chi vorrà farsene un’idea più precisa. L’unica soluzione, a detta di Cottarelli, sarebbe quella più ortodossa, e in verità anche la più logica: tagliare la spesa pubblica attraverso riforme strutturali e revisione degli sprechi, unita ad una moderata dose di austerità.

Tra tutti i concetti collegati al tema del debito pubblico e affrontati il 6 giugno a Cesena, il più importante rimane forse il concetto di austerità, inteso come quell’insieme di misure imposte in momenti eccezionali della vita di uno Stato. Anche se l’ex commissario alla spending review non lo dice esplicitamente, mi pare doveroso evidenziare come l’austerità non sia mai stata ideologia, né appannaggio di una particolare fazione politica, e che proprio per questo motivo essa venga riproposta in fasi storiche in cui diventa semplicemente necessaria. Occorrerebbe tra l’altro ricordare ad una certa sinistra progressista le parole di Berlinguer, che nel 1977 affermava: “Austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia”. O, all’opposto, richiamare ad una certa destra ultraliberista gli errori di Reagan, che considerava il debito pubblico “abbastanza grande da badare a se stesso”, condannando così la California di cui era governatore a una crisi che la portò infine sull’orlo della bancarotta.

Tuttavia, solo a sentir parlare di austerità, tutti i partiti italiani storcono il naso, come se fosse un’eresia impronunciabile. Emblematico è stato il riferimento di Cottarelli alla situazione del Portogallo, e a come sia stata trattata a livello mediatico in Italia. Si parla infatti di un paese ad alto debito pubblico che ha recuperato competitività diminuendo il costo del lavoro e tagliando la spesa pubblica, e che ora cresce ad un livello triplo rispetto all’Italia. Una curiosità? Il governo che porta avanti queste politiche di austerità (perché di austerità si tratta) è frutto di un accordo di larghe intese, ed è a guida socialista. In Italia, questa crescita è stata fatta passare per una vittoria della sinistra sulle politiche della Troika e dei malvagi burocrati che vogliono imporre vincoli alla sovranità degli Stati in difficoltà.

Va peraltro sottolineato come una vera e propria austerità in Italia non sia mai stata attuata. Cottarelli stesso ha ricordato che, nel 2014, il primo documento di economia e finanza del Governo Renzi fissava il surplus primario (cioè il saldo positivo tra entrate e spese delle amministrazioni pubbliche, tolta la spesa per interessi) da raggiungere entro il 2017 al 4,7% del Pil; ad oggi, tuttavia, il surplus si attesta all’1,7%. Inoltre, il bilancio del 2017 ha aumentato ulteriormente la spesa pubblica. Insomma, di flessibilità ne abbiamo avuta anche troppa, e non abbiamo saputo sfruttarla.

Come si esce da questa situazione? Innanzitutto parlandone, come ha fatto e continua a fare Cottarelli. Ma non basta: occorre sottolineare gli aspetti di giustizia – morale e sociale- di una politica di austerità. Per farlo bisogna però creare una rappresentazione più umana della Troika e degli organi sovranazionali che la compongono, perché solo così si può costringere la politica italiana a cambiare l’agenda delle (sue) priorità e ad occuparsi di ciò che serve realmente al Paese. Un esempio su tutti l’ha fatto lo stesso Cottarelli, il quale, illustrando studi di settore fatti dal Fmi sulla spesa pubblica, ha ammesso che le voci che non dovrebbero mai subire tagli, perché direttamente collegate a una crescita di lungo periodo, sono l’istruzione e la cultura. Quanto potrebbe essere dirompente, a livello mediatico, il segnale che le politiche di austerità “volute dall’Europa” in realtà richiedono (non impongono) allo Stato di aumentare la spesa per l’istruzione? Di aumentarla per le attività culturali?

Una chiusura infine sull’Europa. Come abbiamo visto, l’Unione Europea ci ha sempre dato tutta la flessibilità di cui avevamo bisogno; secondo Cottarelli, anzi, ce ne ha data anche troppa. Se si volessero migliorare i meccanismi del funzionamento dell’area Euro, infatti, l’unica soluzione consisterebbe nella creazione di un bilancio europeo più grande di quello attuale, che copre solo l’1% del Pil europeo. Ciò andrebbe fatto in primo luogo per prevenire i rischi locali come quelli che hanno portato alla crisi greca (e nostra) del 2011; in secondo luogo perché così facendo gli squilibri economici tra i paesi tenderebbero ad assottigliarsi, in una duplice ottica di prevenzione dei pericoli e di redistribuzione della ricchezza. Questa sembra essere peraltro la linea voluta da Macron, il quale ha già cominciato a parlarne in un’ottica di riduzione delle spese militari europee.

Su un punto bisogna però essere chiari, e Cottarelli lo è stato fin da subito: l’Europa non cambierà il suo atteggiamento nei confronti del deficit e del debito pubblico dei singoli paesi. Significa che dovremo farlo noi; sperando che non sia già troppo tardi.

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